lunedì 30 novembre 2009

TROVATA UNA CAVERNA SULLA LUNA

Uno stuolo di scienziati giapponesi, dai nomi assolutamente impronunciabili tipo Kazuyuki Hioki, Motomaro Shirao, Hoskoperto Loforo, ecc descrivono la scoperta in un articolo del Geophysical Research Letters, il cui titolo tradotto suona come “Un possibile lucernario di un tubo lavico lunare osservato dalle fotocamere della Kaguya”



Nella foto questo foro nero, del diametro di 65 metri, potrebbe essere una finestra di una caverna sotterranea sulla Luna. La foto, dal sito della JAXA, era stata scattata a maggio del 2008 e ritrae la regione denominata Marius Hill, situata sul lato visibile della Luna.

Sulla Luna sarà difficile, ma non impossibile, costruire un avamposto umano permanente, così come si vede frequentemente nei film di fantascienza. La mancanza di un’atmosfera protettiva però fa sì che la superficie sia direttamente soggetta alla perfida radiazione solare, per non parlare di una pioggia quasi continua di micrometeoriti: inoltre nel corso di un giorno lunare (che dura circa un mese terrestre) la sua temperatura subisce sbalzi di più di 200°C. Molti progettisti, nell’immaginare future installazioni umane sulla Luna, hanno quindi avanzato l’ipotesi di porre la colonia umana all’interno di un riparo (uno shelter), che le fornisca un’adeguata protezione ai pericoli provenienti dallo spazio (prima di tutto la radiazione) e la possibilità di isolamento a fronte di sbalzi termici così elevati.

Lo scavo di questo riparo potrebbe rivelarsi un progetto ingegneristico di fondamenatle rilevanza: la vita si semplificherebbe di parecchio se si trovassero sulla Luna delle caverne naturali. La Luna però non ha rocce calcaree del tipo terrestre, ma viceversa presenta un altro tipo di ambiente che potrebbe produrre caverne sotterranee: i tubi di lava (lava tubes). La Luna anticamente presentava una grande attività vulcanica, che aveva provocato la formazione di ruscelli sinuosi (rill) sulla sua superficie, alcuni dei quali potrebbero essere tubi lavici sotterranei come quelli che si formano ai fianchi del Vulcano Kilauea nelle isole Hawaii.

Quando la lava fluisce verso la superficie, si può raffreddare e solidificare in alto e può formare un tetto solido. Questo tetto isola la lava ancora liquida, che così è libera di continuare a circolare e che può scorrere lungo questi tubi ancora per parecchi chilometri. Alla fine dell’eruzione la lava può fuoriuscire completamente da questo tubo, lasciando al suo posto uno spazio vuoto che forma una caverna sotterranea.

Ma mentre parecchi ruscelli sono stati scoperti sulla Luna, nessuno mai ha confermato la presenza di un tubo lavico, con un tetto ancora intatto, che possa essere usato come riparo per gli esploratori umani. Uno studio, di C.Coombs e R.Hawke, ha ipotizzato che si possano trovare tubi intatti vicino ad altre sezioni collassate, ma la loro presenza non è mai stata confermata. Forse esistono parecchi tubi intatti, ma come fare a trovarli se sono nascosti?

La risposta è nella ricerca e scoperta di lucernari, fori neri nella superficie lunare, che sono aperture d’accesso a caverne sotterranee. Questi lucernari sono comuni sulla Terra e sono stati trovati pure sulla superficie di Marte (foto 1 e 2 fornite dalla sonda Mars Odissey), ma nonostante decine d’anni di ricerche nessuno ha ancora trovato un lucernario lunare. Almeno finora!



Gli innumerevoli coautori dell’articolo hanno esaminato le foto della sonda Kaguya relative ad un’area della Luna ricca di ruscelli, il complesso vulcanico delle Marius Hills. La loro ricerca di un vero e proprio ago in un pagliaio è stata premiata con la scoperta di un foro nero troppo profondo per essere un cratere da impatto: per la precisione questo foro è posizionato a 14.2°N e 303.3°E, proprio al centro di un piccolo ruscello (foto a fianco, effettuata dalla sonda Lunar Orbiter 4: il rettangolino indica la zona fotografata dalla sonda Kaguya). Questo foro è sostanzialmente circolare, con un diametro di 65 metri, ed è equidistante dalle pareti del ruscello, poste a 250 metri. Precedenti missioni lunari non l’avevano ancora fotografato con una risoluzione tale da evidenziarne la natura e da distinguerlo da un cratere da impatto.

La sonda Kaguya l’ha fotografato parecchie volte con vari strumenti a bordo, sia in alta che in bassa risoluzione, con condizioni differenti di illuminazione solare e da varie angolazioni. Semplici calcoli trigonometrici hanno permesso agli scienziati di determinare la profondità del foro da 80 a 88 metri, con pareti molto ripide. Il fatto che il foro è più profondo che largo è un sintomo che non si tratta di un cratere da impatto.

Ma si tratta proprio di un lucernario di una caverna? La sua collocazione proprio al centro di un ruscello è suggestiva, ma gli ambienti vulcanici hanno altre modalità di creazione di pozzi (pit), come ad esempio gli sfiati vulcanici. Nonostante queste considerazioni, gli autori hanno determinato che questa caratteristica lunare è proprio un lucernario di un tubo lavico sotterraneo: hanno pure stimato che la grotta sotterranea dovrebbe essere larga almeno 370 metri, uno spazio più che sufficiente per poterci lavorare all’interno!

Il team ha cercato altre aree simili nella regione, ma senza risultati e per quanto ne sappiano questo foro è appunto il primo mai trovato sulla Luna. Gli scienziati concludono dicendo che “Questa scoperta è importante per gli studi sulla vulcanologia lunare e sulla creazione di avamposti lunari umani. La zona delle Marius Hills è da tempo considerata un obiettivo d’esplorazione importante ed accessibile, sia dal punto di vista scientifico che tecnico. Ecco che, con la scoperta del foro nero cresce l’importanza delle Marius Hills come futuro obiettivo da esplorare”.

Ma forse questo foro non è proprio il posto adatto dove poter collocare una base permanente, dal momento che un sito con accesso ed uscita verticali (tramite una sorta di ascensore) potrebbe non essere ottimale. Magari sarebbe meglio poter entrare ed uscire da una grotta guidando un mezzo: l’ideale sarebbe quindi un tubo lavico intatto in vicinanza di uno collassato, con aperture direzionate verso nord o sud, in modo tale da non essere abbagliati dalla luce del Sole uscendo dalla grotta all’alba o al tramonto. In fondo è proprio la strategia utilizzata dai nostri progenitori cavernicoli quando cercavano una grotta dove poter abitare!

Carolyn van der Bogert, del team della sonda NASA LROC, aggiunge che hanno in serbo una lunga lista di obiettivi fotografati dalla sonda Kaguya da analizzare nuovamente in altissima risoluzione con la sonda LROC. Aggiunge che sicuramente fotograferanno pure questo foro nero sotto varie condizioni di luce incidente, per ottenere buone immagini sia delle pareti del foro che del pavimento sottostante. La sonda LROC è in grado di ottenere immagini con un livello di risoluzione pari a dieci volte quello della Kaguya!

TSUNAMI SOLARI


A volte per "credere" è necessario "vedere". Ed è quello che aspettavano gli scienziati della Nasa per dare conferma a una serie di deduzioni su fenomeni che sembravano avvenire sulla superficie del nostro Sole. Qualche anno fa infatti, alcuni ricercatori avevano rilevato elementi provenienti dalla stella che facevano sospettare la presenza di gigantesche esplosioni seguite da onde gigantesche, così spaventosamente grandi che a dubitare per primi erano gli stessi fisici autori della scoperta. Gli scettici poi sostenevano che i dati erano dovuti a qualcosa di ancora non ben compreso, ma certamente non dovevano essere legati ad esplosioni solari. "Ora abbiamo la certezza. Sul Sole avvengono davvero dei giganteschi tsunami", ha spiegato Joe Gurmel del Solar Physic Lab al Goddard Space Flight Center della Nasa.

La conferma visiva del fenomeno arriva dalla coppia di satelliti gemelli chiamati STEREO, che hanno colto il fenomeno lo scorso febbraio (la notizia è stata data solo ora), quando una macchia solare, la numero 11012, esplose inaspettatamente. L'esplosione eiettò nello spazio una nube di gas di miliardi di tonnellate di peso e creò un vero e proprio tsunami di energia lungo la superficie della stella. STEREO registrarono il fenomeno in due punti diversi dello spazio, posti a 90° l'uno dall'altro, dando ai ricercatori un punto di vista del fenomeno senza precedenti.

"Tale osservazione ci ha permesso di affermare definitivamente che si è formata una vera e propria onda di "plasma" (materiale ad altissima temperatura)", ha spiegato Spiros Patsourakos della George Mason University, autore di un rapporto apparso sulla rivista scientifica Astrophisical Journal Letters.

Gli STEREO hanno osservato un'onda di materiale sollevarsi per 100.000 chilometri dalla superficie del Sole e avanzare nello spazio alla velocità di 900.000 chilometri all'ora. L'esplosione ha generato un'energia paragonabile a quella prodotta da 2.400 milioni di tonnellate di tritolo.

I primi tsunami solari vennero rilevati nel 1997 dal satellite NASA/Esa chiamato SOHO, il quale però non fu in grado di rilevare l'intensità e le proporzioni delle esplosioni in quanto osserva la nostra stella da un'unica posizione.

Il mistero degli tsunami solari è così rimasto insoluto fino a quando i due satelliti della serie STEREO si sono trovati esattamente a 90° l'uno dall'altro rispetto all'esplosione solare, una posizione che ha permesso di cogliere tutti i particolari del fenomeno avvenuto lo scorso febbraio.

"La realtà degli "tsunami solari" è stata confermata anche dai video delle onde che si sono scontrate con aree della superficie del Sole dalle particolari caratteristiche magnetiche. In un video si vede una di queste oscillare dopo che è stata colpita dall'onda dell'esplosione", ha spiegato Angelos Vourlidas del Naval Research Lab in Washington (Usa).

Ricadute sulla Terra? "Per fortuna nessuna - ha assicurato Gurman - Tuttavia sono importanti per studiare il nostro Sole, soprattutto per raccogliere informazioni sull'atmosfera più bassa della stella che non è assolutamente osservabile da Terra".

lunedì 23 novembre 2009

RIPARTITO IL LARGE HADRON COLLIDER


Fasci di particelle circolano nuovamente nel Lage Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore più grande del mondo, tornato in funzione al Cern di Ginevra dopo una pausa di oltre un anno. I primi fasci di particelle - ha annunciato ieri sera il Cern - sono stati fatti circolare in senso orario, già poche ore dopo le prime iniezioni. Adesso si faranno circolare le particelle anche nell’altra direzione, ha detto il portavoce del Cern James Gillies.

«È formidabile vedere di nuovo circolare i fasci nel Lhc», ha dichiarato il direttore generale del Cern Rolf Heurer. «Abbiamo ancora della strada da fare per poter cominciare a fare fisica, ma questo avvio è un grande passo in avanti», ha aggiunto. Il Large Hadron Collider era stato avviato per la prima volta oltre un anno fa, il 10 settembre 2008, ma un guasto sopraggiunto pochi giorni dopo lo aveva condannato ad una lunghissima pausa forzata per le riparazioni. L’acceleratore - un anello sotterraneo di 27 km - è ripartito nel pomeriggio ed un fascio in circolazione ha potuto essere stabilito alle ore 22, ha precisato il Cern. «È una tappa importante nella prospettiva dei primi risultati di fisica, attesi nel 2010», commentano al Cern in attesa delle prime collisioni.

«Rispetto ad un anno fa, capiamo molto meglio l’Lhc», ha spiegato Steve Myers, direttore degli acceleratori. «Abbiamo imparato le lezioni dell’esperienza ed abbiamo messo a punto una tecnologia che ci consente di andare avanti. E così che si compiono progressi», ha aggiunto. La prossima tappa importante sarà costituita dalle collisioni a bassa energia, attese tra circa una settimana, scrive il Cern in un comunicato. Poi sarà fatta salire l’energia dei fasci di particelle in circolazione nell’acceleratore, per preparare le collisioni a 7 Tev l’anno prossimo. Grazie alle collisioni, i ricercatori del Cern prevedono di scoprire particelle elementari mai osservate. L’acceleratore dovrà ricreare le condizioni esistenti subito dopo il Big Bang e mira a catturare il Bosone di Higgs, chiamato anche la particella di Dio, grazie al quale esiste la massa.

L’Lhc era stato riacceso una decina di giorni fa, ma fino a questa notte il fascio di protoni era stato attivato in modo da percorrere solo singoli settori della macchina. Il 19 settembre 2008 si era verificato il guasto che ha imposto una lunghissima pausa all’acceleratore. E per finire, pochi giorni fa una briciola di pane aveva bloccato l’erogazione di elettricità necessaria a far funzionare l’acceleratore. Risolti i problemi e scongiurate maledizioni e paure, adesso tutto è molto diverso. Tanto che nei prossimi giorni si tenterà di raggiungere l’energia di 1,2 TeV: un record per la fisica contemporanea. Le premesse per il successo ci sono tutte perchè, sono convinti i ricercatori, il lungo stop al funzionamento dell’acceleratore non è stato una pausa: si è lavorato moltissimo per aumentare la sicurezza e confinare al massimo eventuali guasti, in modo che possano interessare soltanto settori ristretti della macchina. Alla fine riceratori e tecnici hanno imparato a conoscere molto più a fondo la macchina gigantesca, al punto da essere convinti di poter recuperare velocemente il tempo perduto, anche nella corsa con il concorrente americano, il Tevatron del Fermilab.

RECUPERARE ENERGIA DALLE TURBOLENZE


I materiali piezoelettriciti consentono di convertire l'energia cinetica in elettricità, ma finora le applicazioni sono rimaste limitate per lo più all'elettronica di consumo.

Ora un gruppo di ricerca del City College di New York (CCNY) sta sviluppando questo tipo di tecnologia al fine di generare elettricità su scala più ampia e montarli su automobili e aeroplani: sulla carrozzeria di un'auto o sulla fusoliera di un velivolo, potrebbero produrre una discreta tensione elettrica per effetto delle vibrazioni. L'intensità di corrente non sarebbe ovviamente sufficiente a muovere un veicolo, ma potrebbe caricare una batteria e alimentare così tutti quei dispositivi elettrici secondari che attualmente sottraggono potenza al motore principale, facendo aumentare i consumi.

Presentati al 62-esimo Convegno della Divisione di fluidodinamica dell'American Physical Society (APS) in corso a Minneapolis, negli Stati Uniti, da Yiannis Andreopoulos, professore al CCNY, misurano ciascuno 1,5 x 2,5 centimetri, e potrebbero essere ulteriormente sviluppati sulla base dei modelli delle forze fisiche in gioco nelle diverse situazioni.

“Posti per esempio nella parte posteriore di un veicolo, o in corrispondenza di una qualunque superficie su cui si instaura una turbolenza, il flusso d'aria metterebbe in risonanza questi dispositivi piezoelettrici”, ha commentato Andreopoulos presentando i dati di uno studio nella galleria del vento. "In questo modo sarebbe possibile recuperare almeno in parte l'energia che andrebbe altrimenti dispersa”.

OCEANI CARICHI DI CO2


Gli oceani rivestono un ruolo cruciale nella regolazione del clima, assorbendo più di un quarto del biossido di carbonio che le attività antropiche rilasciano nell’atmosfera. Ora il primo conteggio anno per anno sull'arco di tutta l'era industriale di questo meccanismo suggerisce che gli oceani fatichino a tenere il ritmo delle emissioni umane, una circostanza, questa, che potrebbe avere notevoli implicazioni per il futuro del clima.

A rivelarlo, sulle pagine dell’ultimo numero della rivista “Nature”, è uno studio firmato da Samar Khatiwala, oceanografo del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University.

I ricercatori stimano infatti che nello scorso anno gli oceani abbiano raggiunto un primato, avendo assorbito 2,3 miliardi di tonnellate di CO2 prodotte da combustibili fossili. Ma poiché le emissioni complessive sono cresciute rapidamente negli ultimi anni, dal 2000 la porzione di tali emissioni assorbita dagli oceani è diminuita del 10 per cento.

Alcuni modelli climatologici avevano già previsto tale rallentamento, ma è la prima volta che se ne trova una conferma sperimentale. Gli stessi modelli infatti attribuiscono tale cambiamento all’assottigliamento dello strato di ozono della stratosfera e ai conseguenti disturbi della circolazione oceanica e di quella dei venti.

Questo nuovo studio, per contro, porta a ipotizzare che il rallentamento sia dovuto a limiti chimico-fisici nella capacità degli oceani di assorbire il carbonio, un’idea che viene attualmente verificata da un gran numero di laboratori di ricerca del mondo.
"Quanto più biossido di carbonio si immette in atmosfera, tanto più acidi diventano gli oceani, riducendo la sua capacità di assorbire CO2", ha commentato Khatiwala. “A causa di questo effetto chimico, ci si attende che il sistema oceano divenga un ‘pozzo’ di carbonio sempre meno efficiente.”

Lo studio ha infatti ricostruito, anno per anno dal 1765 al 2008, l’accumulo negli oceani del carbonio di origine industriale. Khatiwala e colleghi hanno trovato che l’assorbimento è rapidamente aumentato negli anni cinquanta, quando gli oceani hanno cercato di mantenere il passo con le emissioni di biossido di carbonio in tutto il mondo. Queste ultime hanno però continuato ad aumentare e nel 2000 hanno raggiunto un valore di picco, dopo il quale la percentuale complessiva di carbonio assorbito ha cominciato inesorabilmente a diminuire, anche se in termini assoluti l’assorbimento continua ad aumentare.

SEMPRE PIU' SU LE EMISSIONI DI CO2


Dal 2000 al 2008 le emissioni di CO2 da combustibili fossili sono ancora aumentate, e non di poco: del 29 per cento. E anche nel 2008, nonostante la crisi economica, l'incremento è stato del 2 per cento, contro una media del periodo del 3,4 per cento. Negli anni novanta la media dell'aumento si aggirava invece intorno all'uno per cento.

Le proiezioni basate sull'andamento del prodotto nazionale lordo globale indicano che nel 2009 le emissioni dovrebbero assestarsi sui livelli del 2007, per poi tornare ad aumentare nel 2010.

Come fonte, il carbone ha ormai superato il petrolio e le emissioni dei paesi in via di sviluppo ora eccedono quelle dei paesi sviluppati. Le emissioni legate allo sfruttamento del territorio sono invece rimaste pressoché costanti dal 2000 a oggi, passando a contribuire sul totale delle emissioni antropogeniche per il 12 per cento contro il 20 del 2000.

Lo ha stabilito uno studio internazionale condotto nel quadro del Global Carbon Project pubblicato su "Nature Geoscience".

Complessivamente, negli ultimi 50 anni la frazione delle emissioni di CO2 che non è stata assorbita dai "pozzi" naturali del carbonio - principalmente foreste e oceani - ed è rimasta in atmosfera è del 43 per cento, passando però da un 40 per cento iniziale al 45 per cento della fine del periodo considerato, un dato che indica una perdita di efficienza dei pozzi naturali.

"L'unico modo per controllare il cambiamento climatico è attraverso una drastica riduzione delle emissioni globali di CO2. I pozzi del carbonio del pianeta sono complessi e ci sono delle lacune nelle nostre conoscenze in merito, e in particolare nella nostra capacità di legare le emissioni antropogeniche di CO2 alle sue concentrazioni atmosferiche su base annua. Se potessimo ridurre l'incertezza sui pozzi del carbonio, i nostri dati potrebbero essere utilizzati per verificare l'efficacia delle politiche di mitigazione degli effetti sul clima"; ha osservato Corinne Le Quéré dell'Università della East Anglia e del British Antarctic Survey, prima firmataria dell'articolo su "Nature Geoscience".

domenica 8 novembre 2009

MICRORGANISMI NEL SUOLO DI MARTE


Nel suolo di Marte ci sono probabili resti di microrganismi. E' quanto emerge da uno studio italiano pubblicato sull'International Journal of Astrobiology, secondo cui "e' possibile" che le strane sferule soprannominate "mirtilli", scoperte da tempo nella zona del pianeta chiamata Meridiani Planum, la grande pianura a Sud dell'equatore marziano, siano resti di forme di vita molto antiche e primitive.
Le analisi, basate sulle immagini raccolte e trasmesse a Terra dalla sonda della Nasa Opportunity, sono state condotte da Vincenzo Rizzo, del dipartimento di Scienze della Terra dell'universita' di Firenze, e da Nicola Cantasano, dell'Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo (Isafom) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).
Sull'origine dei cosiddetti "mirtilli" sono state avanzate finora moltissime ipotesi, ma l'unico dato che ha trovato d'accordo coloro che le hanno studiate e' che sono formazioni "pertinenti alla presenza di acqua". Nel complesso i sedimenti hanno l'aspetto di sottilissime lamine ed e' su queste ultime che si sono concentrati gli sforzi dei due studiosi italiani.
"Il nostro studio - scrivono - mostrano che questi sedimenti e le sferule che contengono potrebbero essere strutture organosedimentarie, probabilmente prodotte da microrganismi". Si tratterebbe insomma di microfossili che nel tempo sono andati accumulandosi, dando origine a sottilissimi strati. Una struttura che, scrivono i ricercatori, "sembra essere consistente con l'esistenza della vita su Marte".
Inoltre la loro origine potrebbe trovare una spiegazione simile a quella delle strutture chiamate stromatoliti presenti sulla Terra e formate da sottilissime lamine nelle quali sono intrappolati microrganismi antichissimi, sia animali (colonie di batteri) o vegetali (microscopiche alghe).

UNA DOCCIA FREDDA PER I VIAGGI SPAZIALI


Quando l’uomo intraprenderà viaggi spaziali molto lunghi dovrà tenere conto di particolari “autostoppisti” che entreranno con loro nelle astronavi: I batteri terrestri. Le condizioni ambientali favoriranno un’azione estremamente spiacevole. Innanzitutto faranno calare di molto le difese immunitarie dei cosmonauti; inoltre scateneranno la crescita e la virulenza dei microbi.

Questi risultati dimostrano che la vera battaglia da vincere per andare su Marte ed oltre non sarà la tecnologia spaziale, ma il superamento di barriere mediche per adesso irrisolvibili, ricordando inoltre che chi viaggerà verso Marte non potrà essere velocemente ricoverato in un ospedale altamente attrezzato…

Il problema più studiato è quello delle grandi distanze e di come poterle superare psicologicamente e tecnicamente. Pochi considerano il problema delle malattie e di possibili epidemie a bordo. Esso sembra invece il più grave e difficile da vincere. Lo studio è andato in grande dettaglio e ha dimostrato che le alterazioni della gravità stimolano la riproduzione di agenti patogeni anche molto comuni, come la salmonella, l’escherichia (alteratore della flora intestinale) e lo stafilococco. Questo aumento in numero e virulenza viene largamente favorito dall’abbassamento delle difese immunitarie. Un bel pasticcio! E le cose peggiorerebbero ancora se si volesse fare restare astronauti a lungo su corpi celesti come la stessa Luna e, successivamente, Marte. Le colonie spaziali restano ancora un sogno?

ACQUA DI LUNA


La Luna è simile ad un’enorme spugna che assorbe le particelle elettricamente cariche che provengono dal Sole attraverso il vento solare. Queste particelle interagiscono con l’ossigeno presente in alcuni granuli della superficie e producono … acqua! Molto semplice ed efficace. Non aspettiamoci però laghi o mari e nemmeno… vasche da bagno. La scoperta è stata fatta dallo strumento SARA dell’ESO, a bordo dell’orbiter lunare indiano Chandrayaan-1. Tuttavia il processo è estremamente interessante anche per altri motivi, in quanto può trasformarsi in un modo ingegnoso per prendere immagini della stessa Luna e di qualsiasi altro corpo privo di atmosfera del Sistema Solare. Cerchiamo di vedere come.

La superficie lunare è composta da una distesa di granuli irregolari di polvere, conosciuta come regolite. Le particelle (protoni essenzialmente) provenienti dal Sole dovrebbero essere intrappolate in questi granelli e, una volta assorbiti, formare appunto idrossili ed acqua, come dimostrato dalla sonda. Tuttavia, non tutti i protoni vengono inglobati nella regolite. Uno su cinque rimbalza e cattura un elettrone libero trasformandosi in idrogeno. L’idrogeno viene scaraventato verso lo spazio ad una velocità di circa 200 km/sec e prosegue senza essere catturato dalla gravità lunare. Inoltre, essendo elettricamente neutro, non subisce alcun effetto da parte di campi magnetici. In questo modo gli atomi proseguono in linea retta, in modo simili ai fotoni della luce. Teoricamente (e si spera anche praticamente) per ogni atomo scappato è possibile risalire al punto in cui si è originato e permettere di costruire un’immagine della superficie. L’area di emissione apparirebbe più luminosa. D’altra parte, benché la Luna non abbia un suo campo magnetico, molte delle sue rocce sono magnetizzate. Queste zone “anomale”, deflettendo i protoni che arrivano sulla Luna, apparirebbero più scure nella mappa costruita con gli atomi di idrogeno.

Ma se questo vale per la Luna, deve valere per tutti i corpi planetari privi di atmosfera, la cui presenza fermerebbe le particelle solari. E’ quindi valido sia per gli asteroidi che per Mercurio. Il team di SARA si aspetta che anche su questi oggetti molti protoni rimbalzerebbero nello spazio sottoforma di atomi di idrogeno. Un bell’avvertimento per la missione BepiColombo verso Mercurio, che porta con sé due strumenti molto simili a SARA e che potrebbero scoprire e “mappare” molto più idrogeno riflesso di quello lunare, in quanto Mercurio riceve un flusso di vento solare molto più concentrato data la sua vicinanza alla nostra stella. Sarà veramente interessante vedere cosa succederà. Evviva i protoni!!

NUOVI CALCOLI SU APOPHIS


Probabilmente è l'asteroide che più di tutti ha tenuto desta l'attenzione dell'opinione pubblica. I dati iniziali, infatti, indicavano per Apophis il 2,7 per cento di probabilità che nel 2029 potesse colpire il nostro pianeta. Probabilità incredibilmente elevata, fortunatamente ridotta in modo drastico dalle successive osservazioni, con la buona notizia che quell'anno Apophis non avrebbe colpito la Terra, ma le sarebbe passato comunque incredibilmente vicino (30 mila chilometri dalla superficie).

Pericolo scampato, dunque, anche se ben presto ci si accorse che quel passaggio avrebbe influenzato l'orbita dell'asteroide con inevitabili ricadute sui suoi futuri incontri con la Terra. I calcoli, infatti, indicavano che ci poteva essere una probabilità su 45 mila che il passaggio del 2036 si rivelasse catastrofico. Valore minimo, ma più che sufficiente a tenere ancora desta l'attenzione degli astronomi e del pubblico. Al recente Meeting della Divisione di planetologia della American Astronomical Society tenutosi a Portorico, però, Steve Chesley e Paul Chodas (Jet Propulsion Laboratory) hanno presentato nuove valutazioni sul rischio-impatto per Apophis. E si tratta davvero di buone notizie.

Grazie alle più recenti osservazioni dell'asteroide, soprattutto quelle compiute dal team di Dave Tholen (Università delle Hawaii) con il telescopio da 2,2 metri posto sul Mauna Kea, Chesley e Chodas hanno ricalcolato l'orbita di Apophis ottenendo che le probabilità di impatto nel 2036 si riducono a circa quattro su un milione. I nuovi dati hanno inoltre evidenziato un altro incontro ravvicinato con la Terra nel 2068, con probabilità di impatto valutabili attualmente in tre su un milione, ma destinate a diminuire ulteriormente man mano che verranno acquisite nuove informazioni sull'orbita dell'asteroide.
Basterà questo rassicurante e drastico ribasso nelle probabilità di rischio a togliere ad Apophis l'etichetta dell'asteroide del Giorno del Giudizio? Vedremo...

UN PIANETA DOVE PIOVONO SASSI


Da un po' di tempo la scoperta di nuovi esopianeti non fa più notizia. Ormai il conteggio ha quasi raggiunto quota 400 e le nuove scoperte si susseguono con una discreta regolarità. Da quando, però, è entrato in servizio l'osservatorio spaziale COROT, la ricerca è diventata ancora più raffinata e gli astronomi ormai non si accontentano più degli "Hot Jupiters", ma aspirano ai pianeti di taglia terrestre.

Lo scorso febbraio COROT ha scoperto nella costellazione dell'Unicorno un pianeta grande meno del doppio della Terra, la cui massa è stata valutata circa cinque volte quella del nostro pianeta. COROT-7b, questo il nome del pianeta, orbita incredibilmente vicino alla sua stella (23 volte più vicino di quanto Mercurio non lo sia al Sole) e questo lo rende un autentico altoforno. Un gioco di risonanze orbitali, poi, blocca rotazione e rivoluzione del pianeta, costretto a rivolgere verso il suo sole sempre lo stesso emisfero. Con il risultato che, mentre la temperatura dell'emisfero costantemente in ombra è di soli 50 K, quella dell'altro emisfero raggiunge valori di circa 2600 K, più che sufficienti a vaporizzare anche le rocce.

Questa situazione così estrema ha incuriosito Laura Schaefer e Bruce Fegley Jr. (Washington University di St. Louis), che hanno provato a simulare quale tipo di atmosfera potesse avere COROT-7b e hanno pubblicato i risultati del lavoro a inizio ottobre su The Astrophysical Journal. Utilizzando e adattando il programma MAGMA - preparato nel 2004 per studiare il vulcanesimo di Io, il satellite galileiano più vicino a Giove - i due ricercatori hanno simulato le caratteristiche dell'atmosfera del pianeta partendo da quattro differenti composizioni. "Sostanzialmente abbiamo ottenuto sempre il medesimo risultato - spiega Fegley. Gran parte dell'atmosfera è composta da sodio, potassio, ossigeno e monossido di silicio. Quello che rende l'atmosfera davvero particolare, però, sono i fenomeni climatici che potrebbero caratterizzarla."

Man mano che si sale in quota, infatti, la temperatura scende e i vapori rocciosi che saturano l'atmosfera possono condensare. Un fenomeno che si verifica regolarmente qui sulla Terra, dove si formano nubi di vapore d'acqua e si originano le precipitazioni che ben conosciamo. Secondo le simulazioni, però, su COROT-7b le nubi sarebbero sostanzialmente di tipo "roccioso" e le conseguenti precipitazioni avverrebbero sotto forma di piccoli ciotoli di differenti tipologie di rocce. Inoltre, alcuni elementi caratterizzati da un basso punto di vaporizzazione, quali il sodio e il potassio, resterebbero costantemente dispersi in atmosfera e, soffiati nello spazio dal vento stellare, potrebbero essere individuati grazie a mirate osservazioni astronomiche. Eventualità tutt'altro che remota, dato che nelle atmosfere di un paio di esopianeti è stata recentemente individuata proprio la presenza di sodio.

Per farla breve, l'atmosfera irrespirabile di COROT-7b non sarà certo un modello di ospitalità, ma è innegabile che i fenomeni che la caratterizzano la rendano molto molto affascinante.

giovedì 5 novembre 2009

MERCURIO, PIANETA DI FERRO E TITANIO


Mercurio, pianeta di ferro, e di titanio. Si era finora ipotizzato ma adesso la sonda Messenger della Nasa che lo ha sfiorato da un’altezza di appena 228 chilometri alla fine di settembre lo ha dimostrato attraverso i dati raccolti ed ora elaborati. Il ferro si presenta in una forma rara difficilmente riscontrabile sugli altri pianeti del sistema solare. La scoperta è intrigante per i planetologi ora scatenati nel cercare di spiegare l’origine del pianeta più piccolo e più vicino al Sole con molti record misteriosi. Tra le altre cose si suppone che abbia un cuore di ferro che rappresenta il 60 per cento della massa del pianeta ed ha un campo magnetico.
Inoltre si ritiene che ciò che vediamo oggi di Mercurio sia quanto rimane da uno scontro planetario con un altro corpo celeste che gli ha strappato gli strati più superficiali lasciando prevalere il suo interno ferroso. Mercurio ha un diametro di 4.880 chilometri, cioè è un terzo della Terra e la sua temperatura superficiale oscilla tra 485 gradi sopra lo zero centigradi ai meno 180 gradi centigradi. Tuttavia da alcune osservazioni compiute anche con i radiotelescopi terrestri sembra che nelle zone dove non batte il Sole all’interno dei crateri si sia conservato del ghiaccio d’acqua portato da antiche comete come pare sia accaduto sulla Luna. Inoltre Mercurio ha un’ atmosfera estremamente sottile generata dall’azione dei raggi solari che interagiscono con la superficie e dagli impatti con micrometeoriti. L’incontro ravvicinato della sonda è il terzo di questo tipo organizzato dalla Nasa per modificare la traiettoria del veicolo spaziale e farlo entrare definitivamente in orbita nel 2011.
Prima di Messenger soltanto la sonda Mariner 10 nel 1970 aveva sorvolato da vicino Mercurio. In quell’occasione, grazie ai calcoli del meccanico celeste professor.Giuseppe Colombo dell’Università di Padova e allora ricercatore al JPL della Nasa in California, la sonda riuscì a passare per tre volte invece di una vicino al pianeta triplicando il bottino di informazioni scientifiche. Così Colombo, ora scomparso, finì sulle pagine del New York Times . Lo stesso Colombo era uno specialista di Mercurio perché ne spiegò gli esatti movimenti: la sua scoperta venne pubblicata sulla rivista Nature. Adesso l’ESA europea sta costruendo una sonda che volerà a studiare Mercurio e che è stata battezzata «BepiColombo» in riconoscimento delle sue scoperte.

PORTE GIREVOLI PER L'ENERGIA DALLE ONDE


L'idea è venuta a un tuffatore che, dopo un volo plastico, per poco ha picchiato una testata contro la porta di una nave affondata. Un'idea che ha ricevuto ora un contributo di 3 milioni di euro. L'idea del finlandese Rauno Koivusaari è semplice: una sorta di porta girevole dal peso di 20 tonnellate che, posizionata a una profondità compresa tra 6 e 23 metri sotto il mare, bascula sotto l'azione delle onde, in modo da azionare un sistema idraulico che trasforma l'energia cinetica in energia elettrica.
Ogni porta è in grado di produrre 300 chilowatt, collegata in serie di tre arriva a una capacità di quasi un megawatt. E in un campo di produzione se ne possono aggiungere quante se ne vogliono, senza contare che, essendo sotto il mare non ci sono problemi di impatto ambientale. Sono quindici anni che Koivusaari sta sviluppando il progetto insieme alla sua società, la AW-Energy e ora ha posizionato un modello-pilota al largo del Portogallo. Il WaveRoller funziona sfruttando il fatto che il modo ondoso, avvicinandosi alla costa, prima che si rompa la cresta dell'onda e formi il classico «cavallone», sotto la superficie marina fa muove le particelle d'acqua con un moto ellittico. Quindi in avanti e all'indietro e questo movimento di andata e di ritorno è proprio quello che sfruttano le porte basculanti intorno a un perno per funzionare in entrambi i sensi.

UN SUPER ASTEROIDE FA SCATTARE NEL MONDO L'ALLERTA ANTINUCLEARE


Gli specialisti del Pentagono e della Nasa hanno sciolto, con una con­clusione da brivido, il miste­ro per quanto è accaduto l’8 ottobre nel cielo dell’Indone­sia. Erano le 11 del mattino quando un tuono poderoso faceva tremare le pareti delle case della città di Bone lungo la costa e la gente correva in strada pensando al terremo­to. Ma guardando in cielo as­sistevano a una pioggia di polveri e a nuvole di vapore che la tv indonesiana ripren­deva mostrando l’enigmati­co fatto e diffondendo la pau­ra.

Una preoccupazione mag­giore assaliva i sorveglianti del Pentagono che nei conti­nenti gestiscono l’Internatio­nal Monitoring System, cioè quella catena di stazioni che con sistemi a infrasuoni regi­strano eventuali esplosioni nucleari sul pianeta o nell’at­mosfera. Così la Comprehen­sive Nuclear-Test-Ban Treaty Organisation controlla il ri­spetto degli accordi sul ban­do dei test nucleari. Anche a 18 mila chilometri di distanza da Bone gli appa­rati mostravano che qualco­sa di grave e violento era ac­caduto nell’atmosfera. Gli specialisti dell’US Air Force e di alcune università che lavo­rano per la Nasa riuscivano dalle registrazioni a risalire alla causa dell’evento.

Un asteroide di dieci metri di diametro era caduto nel­l’atmosfera alla velocità di venti chilometri al secondo. Sbriciolandosi nell’impatto soprattutto a un’altezza tra i dieci e i venti chilometri sca­tenava un’energia di 50 kton (equivalente a cinquantamila tonnellate di tritolo), vale a dire una potenza oltre tre vol­te superiore alla bomba ato­mica di Hiroshima, che era di quindici kton. Per fortuna la natura del bolide cosmico e la sua taglia consentivano la disintegrazione e la dissipa­zione in cielo dell’energia senza provocare danni al suo­lo se non un’onda d’urto che ha fatto temere il peggio. Ora è tutto chiaro, ma quanto è successo ha aumen­tato l’inquietudine per un’eventualità fino a epoche recenti nemmeno considera­ta. Statisticamente corpi di ta­glia simile cadono una volta ogni dieci anni. Ma il guaio è che non si riesce ad accorger­sene come in Indonesia per­ché gli strumenti disponibili non li «vedono».

«Al di sotto dei cento me­tri — dice Tim Spahr, diretto­re del Minor Planet Center di Cambridge (Massachusetts, Usa) sovrintendente a questo mondo dei pianetini — ne ab­biamo registrati ben pochi. Ma non certo di dieci metri. Per scoprirne anche di più grandi intorno ai venti metri occorrono telescopi più po­tenti e costosi». Il pericolo esiste, infatti, a partire da questa taglia perché sarebbe in grado di provocare disa­stri in superficie. Quello ca­duto a Tunguska nel 1908 aveva un diametro di cin­quanta metri e distrusse la fo­resta per duemila chilometri quadrati. Oggi esiste una rete di sor­veglianza, ma è ancora trop­po ridotta. Il Congresso ame­ricano ha chiesto alla Casa Bianca di elaborare una stra­tegia precisa entro l’ottobre 2010 tenendo conto delle in­dicazioni che entro l’anno ela­borerà il National Research Council.

Intanto la scorsa settimana al congresso della Società ge­ologica americana, Sankar Chatterjee, dell’Università del Texas, ha presentato i ri­sultati di un’indagine che cambia lo scenario all’origine della scomparsa dei dinosau­ri. Chatterje ha dimostrato che l’asteroide o cometa di quaranta chilometri, arrivato sessantacinque milioni di an­ni fa, cadde non nella Peniso­la dello Yukatan, ma in India, nel bacino di Shiva. L’impat­to creò uno strato di polvere che avvolse l’intero pianeta sconvolgendo il clima.

L'HOMO SAPIENS E' NATO IN CINA


L'uomo moderno, l'Homo sapiens, è nato in Cina e non in Africa. Inoltre è più vecchio: ha 110 mila anni invece dei centomila dell’africano. Questa la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori dell’Istituto di paleontologia dell’Università di Pechino dopo il ritrovamento di alcuni resti fossili umani nel sud della Cina, nella provincia di Guangxi. Gli studiosi guidati dal professor Jin Changzhu hanno scoperto parti di una mandibola che analizzata ha portato al risultato annunciato con un comunicato della stessa Università. Le conclusioni porteranno sicuramente molte polemiche anche perché il territorio di ricerca delle nostre origini è complesso e in molti particolari sfumato e impreciso. I cinesi hanno dimostrato una certa determinazione nel descrivere i risultati delle analisi che saranno pubblicati sul Chinese Science Bulletin alla fine di questo mese, anche se tutti concordano, e non potrebbe essere diversamente, che le ricerche dovranno continuare.
Se tutto ciò sarà confermato rafforzerà in modo significativo l'«ipotesi multiregionale» che alcuni paleontologi vanno da tempo sostenendo per l'origine dell'uomo. Questa dice che i moderni umani sono i discendenti dei primi uomini usciti dall'Africa ma che poi si sono incrociati con le popolazioni che incontravano nelle altre regioni. L'ipotesi contraria vigente invece dice che tutti noi siamo diretti successori dei progenitori africani di centomila anni fa. Le opinioni già si scontrano. Il professor Milfordd Wolpoff dell’Università americana del Michigan si è espresso a favore del risultato cinese. Chris Stringer paleontologo del Natural History Museum di Londra ipotizza che potrebbero essere i resti di un uomo di Neanderthal la cui popolazione sembrava essersi estesa anche verso la Cina. La ricerca di cui riferisce New Scientist comunque continua, in attesa di conferme ulteriori.

TEMPESTA DI SABBIA IN ALASKA


L'Alaska non è un luogo associato alle tempeste di sabbia. Invece ne è avvenuta una, ripresa lo scorso 30 ottobre dallo spettroradiometro Modis a bordo del satellite Terra della Nasa. Il corso del fiume Copper è disseminato di dune di sabbia e limo, trasportati dai ghiacciai dai quali nasce il fiume e dal corso d'acqua stesso.
I forti venti che scendono dall'altopiano ghiacciato dell'Alaska trovano una via preferenziale proprio lungo l'incisione provocata dal fiume. S'incanalano e vengono accelerati dalla strettoia fino a spazzare la sabbia del letto sollevando una grande nuvola di sabbia che è arrivata al largo nell'oceano Pacifico.

COMUNICAZIONE TRA CELLULE NERVOSE ANCHE SENZA SINAPSI


I neuroni comunicano attraverso le sinapsi: è quanto si legge qualunque manuale di biologia o di neuroscienze. Ora questa nozione dovrà essere modificata perché un gruppo di ricerca dell’Università di Szeged, in Ungheria, ha scoperto che alcuni neuroni per comunicare bypassano del tutto la sinapsi, utilizzando l'emissione di neurotrasmettitori nello spazio tra le cellule, che investe i neuroni circostanti.

Il risultato, riferito in un articolo apparso sulla rivista "Nature", è venuto studiando gli interneuroni, comuni nella corteccia cerebrale, una regione che riveste un ruolo cruciale in molte funzioni cerebrali, tra cui memoria, attenzione e linguaggio.

Precedenti studi hanno mostrato come gli interneuroni possano inibire l’attivazione di altre cellule nervose rilasciando il neurotrasmettitore GABA (acido gamma-aminobutirico), che tipicamente trasmette i messaggi lungo le sinapsi. Tuttavia, alcuni studi hanno mostrato che il GABA può diffondere anche nello spazio extracellulare, dove veicola il messaggio tra neuroni non connessi tra loro da sinapsi. Gli studiosi tuttavia ritenevano che per avere una quantità sufficiente di GABA occorresse l’attivazione di molti neuroni contemporaneamente.

Per verifcare questa ipotesi, i ricercatori ungheresi hanno analizzato campioni di interneuroni umani e murini, che possiedono assoni molto ramificati e riccamente dotati di siti da cui il GABA può essere rilasciato nello spazio extracellulare. I ricercatori hanno potuto riscontrare come solo 11 dei 50 siti di rilascio esaminati corrispondessero a sinapsi. Ulteriori sperimentazioni hanno poi confermato che un solo interneurone, se stimolato, rilascia abbastanza GABA da inibire l’attività dei neuroni circostanti non connessi da sinapsi.

Si è scoperto inoltre che gli interneuroni contengono recettori sensibili a livelli di GABA molto bassi, il che fa ipotizzare che essi siano “progettati” per comunicare tra loro così come con altri tipi di cellule. Gli stessi recettori sono sensibili anche ai neurosteroidi.

FLOTTILLAS A CASAVATORE (NA) 13/06/09

INSEGUIMENTO UFO IN SPAGNA

OSSERVATO UN PEZZO DI SCHELETRO DELL'UNIVERSO


La materia non è distribuita uniformemente nell'Universo: le stelle sono riunite in galassie, le galassie in gruppi e in cluster di galassie. Le teorie cosmologiche accettate prevedono che la materia si aggreghi su una scale ancora più ampia nella cosiddetta “rete cosmica” in cui le galassie, unite da lunghi filamenti che solcano il vuoto cosmico, creano una gigantesca struttura reticolare.

Questi filamenti misurano alcuni milioni di anni luce di lunghezza e costituiscono una sorta di “scheletro” dell'universo: le galassie si accumulano intorno a essi, e immensi cluster di galassie formano le loro intersezioni.

Da alcuni anni, molti cosmologi cercano prove della presenza di questi filamenti: sebbene infatti essi siano stati osservati su scale relativamente brevi, ancora mancava una solida prova della loro esistenza nell'universo più lontano.

Ora un gruppo di ricerca dell'ESO guidato da Masayuki Tanaka è riuscito a scoprire una grande struttura intorno a un cluster di galassie distanti in una serie di immagini catturate in precedenza. Per analizzare la struttura con maggiore dettaglio si è fatto ricorso a osservazioni spettroscopiche ottenute grazie agli strumenti VIMOS del Very Large Telescope dell'ESO e FOCAS del Telescopio Subaru, operativo presso l'Osservatorio astronomico nazionale, in Giappone.

Grazie a queste e ad altre osservazioni, gli astronomi hanno potuto identificare diversi gruppi di galassie che circondano il cluster principale, almeno 10.000 volte più massiccio della Via Lattea, distinguendo decine di questi aggregati, ciascuno dei quali ha una massa da alcune decine ad alcune migliaia di volte maggiore di quella della nostra galassia.

“E' la prima volta che si è riusciti a osservare una struttura dell'universo distante così importante e così ricca di informazioni”, ha spiegato Tanaka. "Ora possiamo passare dalla 'demografia', cioè dal censimento degli oggetti presenti che abbiamo appena concluso, alla 'sociologia', ovvero allo studio delle proprietà delle galassie che dipendono dal loro ambiente, in un'epoca in cui l'universo aveva un'età pari a solo due terzi dell'età presente.”

Il filamento osservato è posizionato a circa 6,7 miliardi di anni luce da noi e si estende per almeno 60 milioni di anni luce, anche se probabilmente tale struttura si estende anche oltre la capacità osservativa attuale. Per questo motivo occorreranno ulteriori ricerche per ottenere una stima definitiva della lunghezza.