giovedì 7 ottobre 2010

QUEL PIANETA SIMILE ALLA TERRA


Il nome, al momento, non è tra i più accattivanti per quello che potrebbe nascondere: si chiama Gliese 581g ed è il pianeta extrasolare più simile alla Terra tra quelli finora scoperti, il primo sul quale potrebbero essersi create le condizioni per la vita.
Il pianeta si trova a venti anni luce da noi e, come si può capire dal suo nome, orbita intorno alla stella Gliese. Ciò che lo rende più interessante rispetto a tutti gli altri pianeti extrasolari è proprio la distanza dal suo sole: l'energia che lo raggiunge renderebbe possibile la vita sulla sua superficie. La scoperta, pubblicata sulla rivista Astrophysical Journal, è stata realizzata da ricercatori dell'Università della California a Santa Cruz e della Carnegie Institution di Washington, che hanno individuato Gliese 581g attravero l'osservatorio astronomico Keck delle Hawaii. Il pianeta è venuto alla luce grazie allo studio, durato una decina d'anni, che ha considerato le più piccole variazioni di orbita della stella madre, variazioni imputabili ai pianeti che le ruotano attorno.
Ad oggi sono stati scoperti 490 pianeti al di fuori del nostro sistema solare che orbitano attorno a circa 420 stelle, ma nessuno finora aveva caratteristiche idonee a sostenere la vita. Molti di essi infatti, sono gassosi e giganteschi, altri troppo vicini o troppo lontani dalla stella madre perché l'acqua, elemento fondamentale per la vita così come la conosciamo, possa scorrere liquida. Gliese 581g invece, si trova alla distanza giusta e possiede una massa tra 3,1 e 4,3 volte quella della Terra e un diametro tra 1,2 e 1,5 diametri terrestri. Inoltre potrebbe essere roccioso e avere acqua liquida sotto un piccolo strato di ghiaccio superficiale e un'atmosfera in grado di proteggere la vita, se mai è sbocciata. "Personalmente viste le potenzialità di quel mondo, sarei propenso ad affermare che le probabilità di trovare vita su di esso sono del 100%", ha detto Steven Vogt, astronomo dell'Università della California, durante la presentazione della scoperta
Il pianeta ruota attorno alla sua stella in 36,6 giorni e le sue temperature medie di superficie sono comprese fra -31 gradi e -12 gradi. Sembra che esso rivolga sempre la stessa faccia all'astro e questo lo porterebbe ad avere una faccia molto più calda dell'altra. Gliese è una nana rossa, una stella che è circa 50 volte più debole del nostro Sole. Poiché essa è anche più fredda i pianeti papabili di avere vita possono ruotarle attorno a distanza anche molto ravvicinate. Gliese 581g infatti, gli ruota a 0,15 Unità Astronomiche (una Unità astronomica corrisponde a 150 milioni di chilometri ossia la distanza Terra-Sole). Cliese 581g è stato scoperto insieme a un altro pianeta, troppo lontano dalla stella madre per poter ipotizzare una qualche forma di vita.

mercoledì 22 settembre 2010

domenica 15 agosto 2010

CREARE IDROGENO DALL'ACQUA


Basterebbe fare come le foglie. Per ottenere energia pulita, una strada è cercare di riprodurre quel processo di fotosintesi che fornisce alle piante zucchero e ossigeno partendo da ingredienti abbondanti come acqua e luce. Il fenomeno si svolge sotto ai nostri occhi tutti i giorni dall'alba al tramonto. Eppure è talmente complesso dal punto di vista chimico da non essere mai stato capito fino in fondo, né riprodotto in maniera efficiente dall'uomo.
Un gruppo di ricercatori italiani ha appena mosso un passo avanti verso questa "pietra filosofale" dell'energia pulita. L'équipe delle università di Trieste, Padova e Bologna e del Cnr di Padova ha descritto su Nature Chemistry come realizzare un catalizzatore per facilitare la scissione delle molecole d'acqua in ossigeno e idrogeno: quest'ultimo utilizzabile come fonte di energia per i motori.
La molecola di H2O, spiegano Maurizio Prato e Marcella Bonchio, coordinatori dello studio, "si forma dal punto di vista chimico facendo reagire idrogeno e ossigeno, in un processo che produce grandi quantità di energia ed è alla base delle celle a combustibile. Ma la reazione inversa, ovvero la scissione della molecola di acqua per generare idrogeno, un combustibile pulito, resta oggi uno degli obiettivi più ambiziosi della ricerca".
Gli elettrodi realizzati in Italia, spiega ancora Prato "sono fatti con nanotubi di carbonio e possono generare idrogeno in modo continuo dall'acqua, anche del mare". Perché il processo della "fotosintesi artificiale" sia completo, mancano ancora alcune tappe da mettere a punto. Ma alla fine, continua Prato, "nel nostro sistema si potrebbe usare acqua di mare, liberarla dall'ossigeno e ottenere idrogeno in grado di alimentare un motore". I nanotubi hanno un diametro esterno di 25 nanometri, o milionesimi di millimetro.
In natura, per superare l'alto livello di energia necessario a spezzare le molecole d'acqua, le alghe e le foglie usano un enzima che si chiama PsII (o Photosystem II). La sua architettura è tanto complessa da non essere imitabile per l'uomo. Quello che il nanotubo di carbonio italiano spera di ottenere è proprio superare questo collo di bottiglia e consentire lo splitting (la divisione di una molecola di H2O in idrogeno da un lato e ossigeno dall'altro) senza bisogno di raggiungere quote elevate di energia: dunque a temperature basse e costi ragionevoli.
"La scoperta del catalizzatore giusto è la chiave di volta per convertire il nostro mondo all'energia rinnovabile e pulita al posto dei combustibili fossili" spiega Prato. "Il catalizzatore che abbiamo realizzato ha un "cuore" dove avviene la reazione, grazie alla sinergia di quattro atomi di rutenio. Qui, atomi ed elettroni dell'acqua vengono trasferiti senza troppa fatica e dunque a bassa energia". I quattro atomi di metallo usati come catalizzatore sono ancorati ai nanotubi di carbonio che funzionano un po' come dei fili elettrici: su di essi infatti corrono gli elettroni che vengono liberati dalla reazione chimica.
Anche con il catalizzatore capace di favorire lo splitting, il motore ad acqua non è per il momento dietro l'angolo. Il "principio di tutte le cose" secondo Talete resta infatti una fonte continua di misteri per fisici e chimici, nonostante la sua abbondanza sul pianeta azzurro, la stabilità dei suoi legami fra gli atomi e la sua limpidezza.

martedì 10 agosto 2010

L'UNIVERSO ETERNO


NESSUN inizio, nessuna fine, ma un Universo in continua evoluzione, dove massa, tempo e spazio possono convertirsi l'uno nell'altro. Un Universo dunque, senza Big Bang e senza fine. Questo è il cosmo in cui viviamo, così come lo ha concepito e definito Wun-Yi Shu della National Tsing Hua University di Taiwan, che permette di risolvere molti problemi ancora aperti della teoria oggi comunemente accettata, che vuole che l'Universo in cui viviamo sia nato dal Big Bang.
Nell'Universo di Shu sono quattro gli elementi in contrasto con l'attuale teoria dell'evoluzione del cosmo e che ne danno una nuova visione. Il primo: la velocità della luce e la "costante gravitazionale" non sono costanti, ma variano con il tempo. Il secondo: il tempo non ha avuto né inizio, né fine, quindi non c'è stato alcun Big Bang. Il terzo: la sezione spaziale dell'Universo è paragonabile ad una sfera a più di tre dimensioni, un'immagine inconcepibile con la fantasia umana, ma che si spiega solo matematicamente. Il quarto, infine: l'Universo vede momenti di accelerazione e decelerazione nella sua espansione.
L'ipotesi di Shu vede da una nuova prospettiva le entità che stanno alla base dell'Universo, in quanto il tempo e lo spazio si possono convertire l'uno nell'altro con la velocità della luce come fattore di conversione. La massa e la lunghezza sono anch'esse intercambiabili: la conversione dipende dalla "costante gravitazionale", che è variabile nel tempo, e dalla velocità della luce, anch'essa variabile. Secondo questa nuova complessa visione, quando l'Universo è in espansione il tempo si converte in spazio e la massa in lunghezza. Quando l'Universo si contrae avviene il contrario.
"Nella mia visione dell'Universo la velocità della luce è un fattore di conversione tra il tempo e lo spazio, in quanto è semplicemente una delle proprietà della geometria dello spazio-tempo", spiega Shu, il quale continua: "Poiché l'Universo è in espansione si può ipotizzare che in fattore di conversione vari in rapporto a tale espansione e dunque la velocità della luce varia con il tempo cosmico".
Questa nuova concezione del cosmo in cui viviamo, tra l'altro, dà modo di spiegare la sua espansione senza ricorrere all'"energia oscura" che, secondo i canoni attuali, compone il 73% dell'Universo (il 23% è materia oscura e solo il 4% è materia ordinaria, quella di cui sono composte le stelle, i pianeti e tutto l'Universo visibile). Dell'energia oscura non si sa nulla e rimane il più grande mistero per gli scienziati.
Alcune critiche, tuttavia, sono già state mosse alla nuova teoria. Le più vigorose vengono da Michael Drinkwater, astronomo alla Univesity of Queelsland, il quale sottolinea come vi siano numerose prove che la velocità della luce è costante e non cambia con il tempo come sostiene Shu. La quantità di idrogeno, elio e altri elementi presenti nell'Universo, inoltre, sono coerenti con la nascita dell'Universo attraverso il Big Bang. Un'altra problematica riguarda la "radiazione cosmica di fondo" che, nel modello del Big Bang, corrisponde alla radiazione residua delle fasi iniziali della creazione dell'Universo e ne è considerata una conferma chiave. Shu è consapevole di queste controversie, ma secondo l'astrofisico è solo una questione di tempo e anch'esse troveranno una spiegazione nell'Universo infinito.

MILIONI DI PIANETI SIMILI ALLA TERRA


E' dai tempi di Copernico che l'uomo si domanda se nell'universo ci siano altri pianeti come la Terra. Oggi la scienza mette a segno una risposta interessante: non solo i pianeti simili al nostro ci sono, ma sono anche un bel po'. Su un campione di 1160 sistemi analizzati nella Via Lattea, ne sono stati individuati 140. Complessivamente, dunque, nella nostra galassia potrebbero esserci anche 100 milioni di gemelli della Terra.
Il dato proviene da "Kepler", la sonda Nasa da 600 milioni di dollari, lanciata nello spazio nel marzo 2009 proprio per setacciare l'universo alla ricerca di nuovi mondi. La notizia è stata data in anticipo sull'uscita dei risultati ufficiali, prevista per il prossimo febbraio. A parlarne è stato, durante una conferenza a Oxford, il ricercatore bulgaro Dimitar Sasselov, docente di astronomia e direttore del progetto "Harvard Origins of Life": "I pianeti come la Terra ci sono, la nostra galassia ne è piena", ha detto Sasselov dell'università di Harvard, intervenendo alla "TEDGlobal conference 1", un evento prodotto da un'organizzazione noprofit. "Solo che, con il nostro piccolo telescopio, nei prossimi due anni riusciremo ad analizzarne al massimo una sessantina".
Questi pianeti sono paragonabili al nostro non perché abitati o abitabili, ma perché di dimensioni similari, ovvero con un raggio inferiore al doppio di quello terrestre. La rivista "Science" riferisce che Sasselov ha mostrato un grafico che illustra la distribuzione di circa 265 pianeti esaminati da "Kepler", 140 dei quali etichettati come "simili alla Terra".
Una novità molto interessante, considerando che da quando la tecnologia ha cominciato, 15 anni fa, a intercettare pianeti anche al di fuori del nostro sistema solare, la stragrande maggioranza di quelli individuati sono stati classificati "giganti gassosi", come Giove, e non "mondi rocciosi", come la Terra o Marte.
L'intervento dello studioso si intitolava "On Completing the Copernican Revolution" ("sul completamento della rivoluzione copernicana") e ha scatenato un polverone nella comunità scientifica, che ancora tiene queste informazioni a distanza di sicurezza, in attesa di riscontri più approfonditi. Con l'inizio del 2012 potrebbe delinearsi un'idea concreta di quanti sono i pianeti simili al nostro nella galassia, ma è ancora presto per trarre conclusioni.

sabato 31 luglio 2010

IL RITORNO DI TIECIUS - TIECIUS'S BACK

Ciao a tutti i figli delle stelle, walk-in ecc che per tanto tempo hanno seguito il mio blog e voglio scusarmi per il lungo periodo di inattivita'. Mi trovo in Inghilterra adesso e per questo motivo sono stato molto occupato. Mi sono reso conto in questo tempo che curare un blog scientifico é piú impegnativo di quanto pensassi ed é per questo che ho deciso di ridurre la mole degli articoli scientifici a favore di quelli piú propriamente riguardanti i Figli delle Stelle e l'evolzione spirituale.
Trovo che questi cambiamenti sono in definitiva piú utili per tutti.

Fedelmente vostro
Tiecius

Hi to all starchildren walk-in et cetera for so long have followed my blog and I want to apologise for my long term publishing vacation. I'm live in England now and that's why I've been so busy. I've realised in the meanwhile that taking care of a scientific blog is harder than I thought and for this reason I've decided to cut a little the scientific articles in favor of Starchildren and spiritual evolution ones. I think all these changes will be definetely more useful for everybody.

Yours Faithfully
Tiecius

giovedì 21 gennaio 2010

UN BRACCIO DI FERRO AI NOSTRI CONFINI


Gli astronomi chiamano la nube che circonda il nostro sistema planetario “Local Interstellar Cloud” o “Local Fluff” (lanugine locale). Essa si estende per circa 30 Anni Luce e contiene una tenue mistura di atomi d’idrogeno ed elio a una temperatura di circa 6000 °C. Il mistero “esistenziale” di questo Fluff ha a che fare con i suoi “vicini di casa”. Circa 10 milioni di anni fa un ammasso di supernove esplosero dalle nostre parti, creando una gigantesca bolla di gas a milioni di gradi di temperatura. Il Fluff è completamente circondato da questo residuo stellare ad altra pressione e dovrebbe essere schiacciato o disperso da esso. La temperatura e la densità della nube locale non potrebbero, infatti, fronteggiare la terribile pressione esercitata dal gas caldissimo che la circonda. Eppure essa sopravvive! Come può essere possibile?

I Voyager hanno trovato la risposta. Il Fluff è altamente magnetizzato e il campo magnetico (tra i 4 e i 5 microgauss) è in grado di fornire la necessaria pressione per fronteggiare la propria distruzione. I due Voyager sono ormai prossimi a entrare nello spazio interstellare, ma non sono ancora all’interno del Fluff. Essi stanno studiando in diretta i rapporti di forza tra eliosfera solare e nube interstellare. L’eliosfera è quell’enorme bolla magnetica (circa 10 miliardi di chilometri) che ci protegge dallo spazio esterno, dai suoi raggi cosmici e dagli ammassi di gas. I Voyager si trovano adesso nella zona più esterna dell’eliosfera (la “Heliosheath”, brughiera solare), dove il vento solare è fortemente frenato dalla pressione del gas interstellare.

La grandezza dell’eliosfera dipende proprio da questa contrapposizione di “forze”. Da un lato il vento solare tende a spingere verso l’esterno, dall’altro la pressione del Fluff lo comprime. I Voyager si trovano proprio nella zona in cui si sta svolgendo questo “braccio di ferro” cosmico e possono quindi misurare la pressione della nube. Come già detto, essa è risultata soprattutto magnetica. Non saprei quindi dire se il Fluff è un bene o un male per il nostro Sistema Solare. E’ vero che esso cerca in tutti i modi di schiacciare la nostra difesa verso i raggi cosmici, ma è anche vero che ci difende dalla potenza devastante dei resti delle antiche supernove, probabilmente molto più pericolosi.



Il fatto che questa nube sia magnetizzata, implica che lo potrebbero essere anche le altre nubi dello spazio interstellare vicino. In un lontano futuro il Sole dovrà vedersela con queste ed esse potrebbero essere più potenti, esercitando pressioni molto superiori di quella dell’attuale Fluff. La nostra eliosfera sarebbe compressa maggiormente e lascerebbe entrare una quantità maggiore di raggi cosmici, i quali sicuramente influirebbero sul clima dei pianeti interni, come la Terra (finalmente un “vero” riscaldamento o raffreddamento globale?). Anche i tanto attesi viaggi interstellari di eventuali astronauti diventerebbero ben più problematici. Avrebbero però un vantaggio: i confini del nostro sistema solare da raggiungere sarebbero ben più vicini degli attuali.

La scala di tempo per questi fenomeni si misura in decine o centinaia di migliaia di anni, il tempo necessario perché il Sole passi da una nube a un’altra. Tanti o pochi? Tutto dipende dalla nostra capacità di convivere con la giusta umiltà e saggezza in una Natura ben più complessa e articolata di quanto vorremmo spesso credere.

giovedì 14 gennaio 2010

I CONSUMI DIVORANO IL PIANETA


Qualche zoommata: i bambini inglesi riconoscono più facilmente i diversi Pokémon che le specie di fauna selvatica; i bambini americani di due anni non sono in grado di leggere la lettera M, ma molti riconoscono gli archi a forma di M dei ristoranti McDonald's; due cani pastore tedeschi consumano più risorse in un anno di un abitante medio del Bangladesh. E un dato d'assieme: i 500 milioni di individui più ricchi del mondo (circa il 7 per cento della popolazione globale) sono responsabili del 50 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, mentre i 3 miliardi più poveri sono responsabili di appena il 6 per cento delle emissioni di CO2.

Sono alcune delle cifre contenute nello State of the World 2010, il rapporto del Worldwatch Institute (appena uscito negli Stati Uniti, in Italia sarà pubblicato da Edizioni Ambiente) dedicato quest'anno soprattutto a un'analisi dei consumi. Ingozzarsi di cibo e di merci non fa bene né ai singoli né all'ambiente. Dal punto di vista della salute individuale c'è da notare che molti degli individui più longevi consumano 1.800-1.900 calorie al giorno, cibi poco trattati e pochissimi alimenti animali, mentre l'americano medio consuma 3.830 calorie al giorno. Dal punto di vista della salute globale c'è da rilevare che tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è sestuplicata, il consumo di petrolio è aumentato di otto volte e quello di gas naturale di quattordici; un europeo medio usa 43 chilogrammi di risorse e un americano 88; a livello globale ogni giorno si prelevano risorse con le quali si potrebbero costruire 112 Empire State Building. Circa il 60 per cento dei servizi offerti gratuitamente dagli ecosistemi - regolazione climatica, fornitura di acqua dolce, smaltimento dei rifiuti, risorse ittiche - si sta impoverendo.

E la corsa a divorare il pianeta diventa sempre più veloce: negli ultimi cinque anni i consumi sono saliti del 28 per cento. Nel 2008, globalmente, si sono acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer e 1,2 miliardi di telefoni cellulari. Non sono aumenti dovuti solo all'incremento demografico: tra il 1960 e il 2006 la popolazione globale è cresciuta di un fattore 2,2, mentre la spesa pro capite in beni di consumo è quasi triplicata.

Non mancano comunque segnali positivi che mostrano l'irrobustirsi di fenomeni di controtendenza. Il rapporto americano cita, tra gli altri, due casi italiani. Il primo è il "piedibus", un sistema per mandare i bambini a scuola con accompagnatori che organizzano un percorso a piedi, con "fermate" per far aggregare al gruppo altri studenti. A Lecco ogni giorno 450 alunni delle scuole elementari raggiungono a piedi le classi seguendo 17 percorsi, accompagnati da un "conducente" e genitori volontari. Dalla loro creazione, nel 2003, questi "piedibus" hanno evitato circa 160 mila chilometri di spostamenti con veicoli a motore. Oltre a ridurre l'impatto ecologico, questo modo di andare a scuola insegna la sicurezza stradale e favorisce l'esercizio fisico.

Il secondo segnale positivo italiano segnalato dal Wordlwatch Institute riguarda le scuole romane. Il 67,5 per cento del cibo servito nelle scuole della capitale è biologico e in buona parte proviene da catene specializzate in prodotti del territorio o ha un certificato "equosolidale" o è stato prodotto da cooperative sociali che lavorano terra confiscata alla mafia.

C'E' VITA SU MARTE O C'ERA?


Il gruppo di ricercatori della Nasa che sostengono di aver trovato indizi di vita passata su Marte nel meteorite caduto in Antartide e oggi noto come AHL84001, hanno fatto sapere che grazie all'uso di una nuova sofisticata strumentazione stanno trovando simili indizi in altri due meteoriti caduti sulla Terra e anch'essi provenienti da Marte. Secondo le prime indiscrezioni, i ricercatori sono certi che nelle prossime settimane dimostreranno definitivamente con pubblicazioni scientifiche che Marte era abitato nel passato da organismi viventi.

"Ci manca davvero poco per dimostrare definitivamente che su Marte c'era e forse c'è ancora vita", ha detto David S. McKay, responsabile del reparto di astrobiologia della Nasa.
Fino ad oggi le ricerche della vita passata su Marte si erano concentrate sul meteorite che cadde in Antartide 13.000 anni fa e che venne trovato nel 1984 da una ricercatrice della Nasa. Il meteorite è stato oggetto di molteplici ricerche su alcuni elementi trovati all'interno del meteorite che, secondo un gruppo di ricercatori, erano prove a favore della vita passata, mentre per altri erano il risultato di fenomeni spiegabili in modo inorganico.

Nel mese di novembre, però, grazie ad un'ultima analisi realizzata con strumenti assai più sofisticati di quelli usati negli anni Novanta, e che si basa su una tecnica chiamata "fascio ionico focalizzato" (usa un fascio di ioni (atomi a cui sono stati tolti degli elettroni) per raffigurare un campione da analizzare), il team di McKay portava nuove prove a favore che quanto c'è all'interno del meteorite può essere spiegato solo attraverso un'origine biologica. Nelle ultime settimane, lo stesso gruppo di ricercatori sta analizzando altre meteoriti marziane cadute sulla Terra e in due di esse ha trovato gli stessi elementi che, a dir loro, sono di provenienza biologica. Una di queste meteoriti, nota come "Meteorite Nakhla", cadde nel 1911 vicino alla città di Nakhla in Egitto e allora fece molto clamore. Il pezzo più grande, dei 40 in cui si ruppe, è rimasto esposto a lungo nel Museo di Storia Naturale di Londra ed è quallo in fase di analisi. Il terzo meteorite , chiamato "Yamato 593", proviene anch'esso dall'Antartide.

Secondo i ricercatori tra i 3,6 e 1,4 miliardi di anni fa il pianeta rosso doveva essere popolato da un gran numero di micro-organismi, quando la sua atmosfera era assai più spessa e umida. Un arco di tempo nel quale anche sulla Terra iniziò a svilupparsi la vita. Ciò che fa dire agli scienziati che in quei meteoriti ci sono indizi di vita marziana è una configurazione complessa di sostanze chimiche, che potrebbe essere stata deposta unicamente da organismi viventi. Inoltre sono state scoperte strutture che assomigliano moltissimo a micro batteri grandi tra i 20 e i 100 nanometri (un nanometro è un milionesimo di millimetro).

Queste nuove scoperte, divulgate da Spaceflightnow, si affianca a quella di alcuni mesi or sono che sostiene che i rover Spirit e Opportunity in attività su Marte dal 2004 abbiano messo in luce strutture che sulla Terra sono depositate da organismi viventi. La scoperta è stata realizzata da Vincenzo Rizzo, del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze, e di Nicola Cantasano, del Consiglio Nazionale delle Ricerche ISAFoM di Rende (Cosenza). Secondo i ricercatori le piccolissime sferule osservate dai dure rover e chiamate dai ricercatori della Nasa "mirtilli", sarebbero il risultato dell'attività di organismi viventi. Ma non è tutto. Anche le strutture sedimentarie in cui essi si trovano vennero deposte da colonie di organismi che sono chiamate stromatoliti. Spiega Cantasano: "Le analisi delle immagini al microscopio eseguite dai rover ci permette di sostenere che quelle sferule non sono omogenee come si credeva e che faceva ipotizzare un'origine inorganica, ma presentano strutture complesse che solo colonie di migliaia di cianobatteri (organismo monocellulari un tempo chiamati "alghe azzurre") avrebbero potuto formare".

Ora non rimane che attendere le prossime missioni spaziali verso Marte che porteranno strumenti per un'analisi approfondita del suolo marziano con il fine primo di cercare proprio sul luogo forme di vita passate o presenti.

mercoledì 13 gennaio 2010

FORTE TERREMOTO AD HAITI



E' una tragedia di proporzioni inimmaginabili, il terremoto che ha colpito Haiti, il paese più povero dell'intero continente americano. La capitale, Port-au-Prince, di fatto non esiste più. La maggior parte degli edifici non ha retto, non ha potuto reggere, forse, ad uno sciame di scosse devastanti, cominciato con un colpo di maglio come mai si era sentito nella regione caraibica.

La tragedia è che non è ancora chiaro neppure quale sia il vero ordine di grandezza del numero di morti. Si parla di migliaia di vittime, ma forse sono decine di migliaia: gli epicentri dello sciame sismico sono fra una quindicina ed una sessantina di chilometri da una città di due milioni di persone.

Altre due violentissime scosse di terremoto, rispettivamente di magnitudo 5,5 e 5,9, si sono susseguite alla prima di magnitudo 7.2, con epicentro a pochi chilometri dalla capitale di Haiti, Port-au-Prince. L'ambasciatore dell'isola negli Stati Uniti, Raymond Joseph, ha definito la situazione come "una catastrofe di proporzioni devastanti". Joseph ha fatto appello a tutti i Paesi, e in particolare agli Usa perché si mobilitino con gli aiuti.

L'ipocentro delle scosse, ad appena 10 chilometri di profondità: le case sono venute giù come pezzi di domino su un tappeto sbattuto. Sono crollati tre ospedali su quattro, il quartier generale delle Nazioni Unite è raso al suolo, il palazzo presidenziale, che fu di 'Papa Doc' Francois Duvalier e del figlio 'Baby Doc', si è afflosciato come un soufflé. Ci sono vittime anche tra i Caschi Blu dell'Onu. E dopo il terremoto, l'orrore degli sciacalli, che si sono scatenati subito in un paese che è il 203/o su 229 al mondo per reddito pro-capite annuo.

Tutto è cominciato alle 16:53 locali di ieri (le 22:53 italiane), quando una terrificante scossa di 7.0 gradi Richter ha spezzato la normalità. Da allora sono già 33 gli altri scrolloni, tutti oltre magnitudo 4.5. L'ultimo finora registrato dal servizio sismografico statunitense Usgs è stato alle 2:23 (le 8:23 di Roma), ma i geologi si aspettano che il mostruoso terremoto che si è scatenato ad appena una trentina di chilometri dalla capitale dove vivono oltre due milioni di persone All'Aquila il primo colpo fu di 5.8. Ad Haiti, questo é stato il livello delle 'scosse di assestamento''.

Dopo il primo incredibile minuto di terrore, Port-au-Prince si è trasformata in una distesa dirovine, un'enorme nube grigia di polvere con migliaia di persone inghiottite sotto le macerie. Con il calare della notte, mentre i soccorritori hanno cominciato a reagire in ordine sparso, la città è diventata una macchia di oscurità totale, popolata di spettri accasciati sulle strade senza sapere dove andare. "Tutto ha ballato, la gente urla, le case hanno cominciato a crollare. Il caos è totale". E' stata la prima testimonianza di un paese in cui non c'é più nulla.

I voli di linea per la capitale sono stati cancellati, ma l'aeroporto è agibile. La Francia ha fatto partire due aerei con soccorritori e materiale, uno dalla Martinica e uno da Marsiglia. Dall'Italia partirà oggi un C130 militare con un ospedale da campo, personale medico e una squadra della Protezione civile. Anche altri paesi hanno offerto aiuti al governo locale. Non funzionano i telefoni nella capitale e non si riesce a comunicare con le persone che si trovano lì.

Sono circa 190, secondo la Farnesina, gli italiani che dovrebbero essere presenti sull'isola. Il capo dell'unità di crisi della Farnesina, Fabrizio Romano, ha dichiarato che al momento non risultano italiani coinvolti, ma ha precisato che "a mancanza di informazioni non vuol dire che non ce ne siano". "Non riusciamo a metterci in contatto con Haiti - spiega il portavoce dell'ambasciata italiana a Santo Domingo, Gianfranco Del Pero -. E' un problema nostro, dei colleghi francesi, americani, tedeschi e spagnoli con i quali stiamo collaborando. Nessuno ha davvero notizie per adesso. Tutti siamo in attesa di riallacciare le comunicazioni. Ma per ora è impossibile".

UN NUOVO MECCANISMO DI REGOLAZIONE DEI GENI


I microRNA possono entrare direttamente in contatto con i geni e silenziarne l'attività. La scoperta dell'esistenza di questo ulteriore meccanismo di regolazione dell'attività dei geni è stata fatta da un gruppo di ricercatori del centro di biologia vegetale dell'Università di Friburgo, in Germania, diretto da Wolfgang Frank e Ralf Reski, che la illustrano in un articolo pubblicato sulla rivista "Cell".

I geni attivi vengono trascritti in RNA messaggero (mRNA), che funge da stampo per la produzione di proteine da parte dei ribosomi. Nel corso dello sviluppo e in differenti condizioni ambientali l'equilibrio fra geni attivati e non attivi viene finemente modulato e l'alterazione di questo equilibrio può portare a malformazioni o a stati patologici. La scoperta che in C. elegans piccole sequenze di RNA possono attaccarsi alle molecole di mRNA e influenzarne in tal modo l'attività di trascrizione fruttò nel 2006 ai loro autori Craig C. Mello e Andrew Z. Fire, il premio Nobel per la fisiologia o la medicina.

In questo studio i ricercatori hanno ora descritto come i microRNA non si limitino a spegnere indirettamente i geni interferendo con l'mRNA, ma sono anche in grado di interagire direttamente con i geni. In questo processo i geni vengono silenziati attraverso l'aggiunta di gruppi metile, secondo una modalità caratteristica delle interazione epigenetiche.

La scoperta di questo nuove meccanismo di regolazione genica è stata fatta studiando Physcomitrella patens, una briofita, il cui genoma è stato sequenziato fra l'altro nell'autunno scorso, ma secondo i ricercatori è molto verosimile che esso non sia attivo solamente in queste muffe, ma che sia presente anche negli organismi superiori, uomo incluso.

A RISCHIO L'ASSORBIMENTO DI CARBONIO DELLE FORESTE


Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, il riscaldamento climatico e l’allungamento della stagione di crescita delle foreste subalpine producono probabilmente un minore assorbimento di biossido di carbonio, secondo un nuovo studio dell’Università del Colorado a Boulder.

"I nostri risultati contraddicono gli studi di altri ecosistemi, secondo cui una più lunga stagione di crescita in realtà incrementa l’assorbimento del carbonio da parte delle piante”, ha spiegato Jia Hu, che ha partecipato alla ricerca, in via di pubblicazione sulla rivista Global Change Biology.

Insieme con il collega Russell Monson del Cooperative Institute for Research in Environmental Sciences (CIRES), Hu ha trovato che sebbene una minore copertura nevosa all’inizio della primavera possa favorire effettivamente l’allungamento della stagione vegetativa, essa riduce anche la quantità di acqua disponibile per le foreste nel periodo successivo dell’estate e dell’autunno.

"La neve è molto più efficace della pioggia nel fornire acqua a queste foreste”, ha aggiunto Monson. “Se un clima più caldo porta più pioggia, ciò non potrà compensare la perdita della capacità assorbimento del carbonio dovuto alla diminuzione della copertura nevosa.”

Inoltre, sottolinea ancora il ricercatore, alberi più secchi sono più esposti alle infestazioni e agli incendi.

Nel corso dello studio si è infatti verificato che anche nella tarda stagione di crescita, tra settembre e ottobre, il 60 per cento dell’acqua contenuta nei campioni di fusti e di semi raccolti da alberi subalpini lungo il Front Range del Colorado deriva dello scioglimento della neve primaverile, come dimostrato dalla composizione isotopica degli atomi di idrogeno e di ossigeno.

"Poiché la fusione della neve nelle foreste di queste altitudini elevate prevedibilmente subiranno una diminuzione, lo stesso succederà all’assorbimento del carbonio”, ha concluso Hu.

giovedì 7 gennaio 2010

UNA COMETA INGHIOTTITA DAL SOLE


Uno scontro catastrofico fra una cometa e il Sole: ecco la prima scoperta astronomica del 2010, documentata da una spettacolare sequenza di immagini del satellite SOHO (Solar Heliospheric Observatory), frutto maturo ma ancora validissimo della collaborazione fra gli enti spaziali europeo (ESA) e americano (NASA).

A scoprire la cometa, non attraverso il tradizionale telescopio, ma analizzando le immagini di SOHO disponibili online, è stato Alan Watson, un astrofilo australiano da anni impegnato in questo particolare tipo di caccia fra i pixel. L’astronomo non professionista stava passando le prime ore del nuovo anno a decifrare il movimento delle migliaia di puntini luminosi che compaiono nelle sequenze di immagini riprese in continuazione da SOHO, quando ne ha rintracciato uno, seguito da una scia, che si avvicinava pericolosamente al Sole: «È una sungrazing comet», ha pensato immediatamente, cioè una cometa che passa radente al Sole. E, infatti, a un certo punto, l’oggetto è scomparso come se fosse stato inghiottito dalla nostra stella. Anche noi possiamo ammirare la scena attraverso una composizione animata delle immagini di SOHO (guarda). Si vede la cometa seguita dalla lunghissima coda arrivare da sinistra e puntare al centro, verso il Sole artificialmente occultato da un disco opaco che serve a contenere la sua luce abbagliante.

Qualche volta succede che dopo il passaggio al punto di minima distanza dal Sole (perielio in gergo astronomico) l’intera cometa, o almeno qualche frammento di essa evidenziato da una coda gassosa, ricompaia e riprenda la corsa lungo la sua orbita. Ma, finora, della cometa «sungrazing» non c’è traccia: se qualche pezzo è scampato alla disintegrazione nell’inferno solare, forse è troppo piccolo per essere visto.

Fra tutti i corpi minori che popolano il sistema solare, le comete sono astri molto particolari. Sono costituite da un nucleo solido di qualche km di diametro, formato da materiale roccioso e da ghiacci che evaporano in prossimità del Sole, sviluppando spettacolari chiome e code gassose. Quando queste parti effimere della struttura cometaria sono particolarmente sviluppate, allora possiamo vederle dalla Terra a occhio nudo, senza l’aiuto del telescopio. Solitamente le comete percorrono orbite molto ellittiche, attraversando gran parte del sistema solare e ritornando periodicamente a circumnavigare il Sole a una distanza di sicurezza. Ma, come ha documentato l’ormai quindicenne satellite SOHO, sono frequenti anche i casi di comete «sungrazing», che sfiorano la nostra stella fino alla parziale o totale disintegrazione. Alla fine dell’Ottocento, l’astronomo tedesco Heinrich Kreutz, confrontando le orbite delle poche comete «sungrazing» allora conosciute, si accorse che avevano caratteristiche simili e pensò che fossero il risultato della frammentazione in più parti di una singola cometa progenitrice. Studi successivi confermarono questa ipotesi e portarono all’identificazione di altre comete sungrazing collettivamente battezzate col nome dell’astronomo tedesco: il cosiddetto «gruppo di Kreutz». Secondo alcuni studiosi, l’antica cometa capostipite del gruppo sarebbe passata radente al Sole addirittura il 371 avanti Cristo e corrisponderebbe all’astro osservato dallo storico greco Eforo, il quale riferì di avere assistito alla sua scissione in due parti. Col trascorrere dei secoli i frammenti, nel corso di successivi passaggi solari radenti, si sarebbero ulteriormente suddivisi, dando vita al numeroso gruppo di Kreutz. La cometa scoperta all’inizio di quest’anno apparterrebbe proprio a questa straordinaria filiazione celeste.

HA 395 MILIONI DI ANNI IL PRIMO RETTILE TERRESTRE


L'ambiente era quello di una palude. Gli animali si aggiravano muovendosi a quattro zampe. Attorno a loro non c'erano altri animali, se non alcuni che ancora non avevano abbandonato del tutto il mare e che talvolta facevano capolino sulla terraferma. A volte quei primi animali terrestri lasciavano impronte che venivano coperte da sedimenti che ne conservarono le forme nel tempo, fossilizzandole. Ora, a distanza di quasi 400 milioni di anni alcune di quelle orme sono venute alla luce e a poche ore dalla loro divulgazione hanno già creato un terremoto tra i paleontologi. Ma andiamo per ordine.

Un gruppo di ricercatori dell'Università di Varsavia ha scoperto impronte di quello che al momento risulta essere il più antico tetrapodo (una classe di animali a cui appartengono gli uccelli, i mammiferi, i rettili e gli anfibi) a 4 zampe che camminò sulla Terra. Le impronte, che hanno un'età di 395 milioni di anni, sono venute alla luce in un affioramento di calcari vicino a Zachelmie, in Polonia e appartengono ad un tetrapode che, stando ai paleontologi, dovrebbe spostare indietro nel tempo di almeno 18 milioni di anni l'esistenza di questi animali. La scoperta quindi, potrebbe far riscrivere una parte dell'evoluzione dei vertebrati.

L'importanza sta nel fatto che tale datazione suggerisce che i tetrapodi coesistettero per almeno 10 milioni di anni con quei gruppi di animali che si è sempre pensato fossero la transizione tra i pesci e gli animali terrestri e che vissero in totale solitudine sulla Terra. La traccia scoperta dai ricercatori suggerisce che gli animali dovevano essere lunghi circa 2 metri e mezzo e possedevano zampe larghe dai 15 ai 26 cm. La scoperta è stata realizzata da ricercatori polacchi e svedesi e pubblicata su Nature. "Quanto si può osservare a Zachelmie, fa sostanzialmente cambiare il contesto delle future ricerche che riguardano l'origine dei tetrapodi", ha spiegato Grzegorz Nied? wiedzki, uno specialista di impronte fossili dell'Università di Varsavia.

I ricercatori sono certi di quanto affermano, perché le ricerche sono durate mesi ed hanno escluso ogni altra possibilità che possa spiegare quelle forme trovate nelle rocce, ma quanto essi sostengono è già oggetto di critiche da parte di altri ricercatori, come ha fatto Philippe Janvier del Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi, il quale ha così commentato la pubblicazione: "Sono sicuro che la relazione dei paleontologi polacchi e svedesi sarà sottoposta a forti critiche". I giudizi più severi puntano sul fatto che di quell'animale in quell'area non si hanno reperti di ossa fossilizzate e che le tracce potrebbero essere il risultato di fenomeno naturale che non si possono interpretare a così lunga distanza di tempo. "E' difficile credere che quell'animale possa essere stato un precursore della vita terrestre, perché è già enorme, mentre ci si aspetterebbe che i primi esseri ad aver lasciato le acque marine fossero stati più piccoli e leggeri", ha detto Jennifer Clack, paleontologo presso l'Università di Cambridge.

A queste critiche Per Ahlberg, paleontologo dell'Università svedese di Uppsala che ha partecipato alle ricerche risponde in questo modo: "Le impronte mettono in mostra persino i dettagli morfologici delle zampe e i sedimenti che cadevano dalle zampe quando queste si appoggiavano sul terreno. Non c'è alcun processo naturale che potrebbe originare questa serie di impronte".

Le rocce che hanno conservato tali orme si trovano nelle Montagne ? wi? tokrzyskie, note per essersi formate durante il periodo geologico noto come Devoniano Medio, che si ebbe attorno a 380 milioni di anni fa. Esse si depositarono lungo le coste meridionali del continente Laurasia, che si formò quando il continente Pangea iniziò a frantumarsi. Il tetrapodo che avrebbe lasciato le proprie impronte viveva nelle lagune di tale ambiente.

CIVILTA' FINORA SCONOSCIUTE NEL CUORE DELL'AMAZZONIA


Centinaia di cerchi, di quadrati e altre forme geometriche costruite da antiche società del tutto sconosciute che fiorirono in Amazzonia, stanno oggi venendo alla luce dal fitto della foresta. Le scoperte sono iniziate all'inizio del decennio quando dapprima attraverso Google Earth e poi con l'uso di satelliti per il rilevamento terrestre sono state analizzate aree di foresta disboscate. Da allora la ricerca si è intensificata anche in aree dove esiste ancora la foresta e ultimamente sono venute alla luce un gran numero di strutture geometriche. Ad oggi se ne contano oltre 200 su una distanza di circa 250 chilometri. Ma quanto scoperto potrebbe essere solo un decimo delle strutture che la foresta tiene ancora nascoste sotto la sua vegetazione.

"Al momento la maggior parte delle strutture sono state datate attorno al 1280, sebbene alcune potrebbero essere state costruite un millennio prima", ha spiegato Denise Schaan, antropologa dalla Federal University di Parà in Belem (Brasile), che ha guidato le ricerche. Secondo quanto rilevato e studiato fino ad oggi risulterebbe che quando arrivarono gli europei in Sudamerica, l'Amazzonia nascondeva una società complessa, probabilmente caratterizzata da rapporti di vario tipo che, probabilmente, venne distrutta in seguito alle malattie diffuse dai colonizzatori tra il XV e il XVI secolo.

Di queste società si perse ogni traccia e le ricerche non vennero realizzate perché si ipotizzò che i suoli nel nord dell'Amazzonia fossero troppo poveri per permettere l'agricoltura necessaria alla vita di una società sviluppata. "Oggi sappiamo che il quadro che ci siamo fatti - ha spiegato Schaan- è errato e dunque c'è tantissimo ancora da scoprire in quei luoghi".

Le ultime scoperte hanno messo in luce una serie di scavi ampi anche 11 metri e profondi diversi metri con un muro in terra che fa da protezione alto circa un metro. Numerose strade poi, collegano queste misteriose strutture. Attorno ad alcune di queste sono stati scoperti dei manufatti necessari alla vita quotidiana di un'abitazione, come ceramiche o frammenti in legno per vari usi.

Ma chi costruì e soprattutto a cosa servì tutto ciò nel fitto della foresta amazzonica? "Al momento rimane un mistero. E' probabile che quelle strutture potessero essere dei luoghi cerimoniali costruiti vicino a case", ha detto la ricercatrice. Tuttavia, secondo William Woods, un antropologo dell'Università del Kansas (Usa) le strutture potrebbero aver avuto finalità diverse nel tempo.

Quel che ha meravigliato gli archeologi è il fatto che le forme geometriche appaiano sia in aree pianeggianti che in ambienti collinari, dove, da sempre, si è creduto che le popolazioni preferissero non vivere. Tuttavia, poiché le strutture nelle due aree sono molto simili, secondo i ricercatori fu la medesima società a edificare gli uni e gli altri. "Un'idea che va contro quella comune secondo cui in Amazzonia le popolazioni non ebbero rapporti tra di loro", ha sottolineato Schaan.

Secondo un primo rilevamento è possibile che la società che costruì tutto ciò sia stata composta da almeno 60.000 persone. I primi risultati sono stati pubblicati sulla rivista Antiquity.

Per gli archeologi quanto sta venendo alla luce è davvero un mistero, anche perché se fino a oggi si chiedeva loro quante persone potevano vivere in quell'ambiente, la risposta sarebbe stata vicino a zero. "Il primo passo è stato fatto - ha rimarcato l'archeologa - ma ora rimane moltissimo da rilevare e studiare. I risultati potrebbero far riscrivere pagine di storia di un mondo che neppure pensavamo che esistesse".

DENTRO L'OPUS DEI

sabato 2 gennaio 2010

ANCHE I POLI MIGRANO

Anche i poli migrano. E durante l'ultimo anno il Polo Nord magnetico si è spostato di 64 km, dal Canada verso la Siberia. Un record quello registrato nel 2009, ma anche un mistero. Le cause di questa migrazione, infatti, restano misteriose e sono da ricercare nei mutamenti che stanno avvenendo nel nucleo terrestre, ancora tutti da interpretare. Da quando, circa due secoli fa, si è iniziato a studiare il magnetismo del nostro pianeta si è osservato che sta cambiando di intensità e direzione. Ma negli ultimi decenni le due variazioni hanno assunto valori del tutto inaspettati.



Anche i poli migrano. E durante l'ultimo anno il Polo Nord magnetico si è spostato di 64 km, dal Canada verso la Siberia. Un record quello registrato nel 2009, ma anche un mistero. Le cause di questa migrazione, infatti, restano misteriose e sono da ricercare nei mutamenti che stanno avvenendo nel nucleo terrestre, ancora tutti da interpretare. Da quando, circa due secoli fa, si è iniziato a studiare il magnetismo del nostro pianeta si è osservato che sta cambiando di intensità e direzione. Ma negli ultimi decenni le due variazioni hanno assunto valori del tutto inaspettati. Per quel che riguarda la mutazione della posizione del Polo Nord magnetico si è scoperto che, a fronte di un movimento di circa 15 Km all'anno che si registrava tra il 1800 e l'inizio del 1900, si è passati, a fine anni Ottanta, a una velocità di 55-60 Km annui, per raggiungere la velocità massima tra il 2008 e il 2009. A questi dati, divulgati nei gg scorsi dall'Istituto di Fisica della Terra di Parigi, si affiancano i rilevamenti pubblicati alcuni mesi fa su Nature Geoscience che riguardano l'intensità del campo magnetico terrestre. Secondo il Centro Nazionale Spaziale della Danimarca, rapidi cambiamenti nei movimenti che avvengono nella parte liquida del nucleo terrestre stanno notevolmente indebolendo il campo magnetico del pianeta. "Queste variazioni sono improvvise e in certe aree della Terra particolarmente evidenti. Nel 2003 sono state molto pronunciate in Australia, mentre nel 2004 sono diventate assai evidenti in Sud Africa. Negli ultimi mesi anche sul Brasile si è aperta un'area ovale dove il campo magnetico è molto più debole rispetto ad altre aree poste alla medesima latitudine", dice Nils Olsen, geofisico, che ha realizzato la ricerca. Ma a cosa può portare tutto questo? "Quelle variazioni potrebbero essere l'inizio di un'inversione del campo magnetico terrestre. Ma attenzione, prima di giungere a questa conclusione è necessario continuare a raccogliere dati", spiega Mioara Mandea del Centro di Ricerche di Geoscienza di Postdam (Germania).

Un'ipotesi di questo genere, comunque, potrebbe avvalorare la tesi di coloro che credono che nel 2012 il campo magnetico terrestre subirà qualcosa di unico, una rivoluzione terrestre da inquadrare in una sorte di fine del mondo. Ma non è così. Le inversioni del campo magnetico, infatti, sono un fenomeno che sul pianeta si è verificato decine e decine di volte, con un ritmo che si aggira attorno ai 600 mila anni. Ora, poichè l'ultima inversione dei poli è avvenuta circa 750mila anni or sono statisticamente un nuovo evento di questo tipo potrebbe anche verificarsi. Va anche detto, però, che nessuno sa quanto tempo è necessario affinchè si attui un'inversione. Questo fenomeno, infatti, potrebbe avvenire nell'arco di pochi anni. Ma anche di alcuni millenni.




Ma intanto quali possono essere le conseguenze a breve termine delle mutazioni subite dai poli magnetici? "La diminuzione dell'intensità del campo magnetico può far sì che le radiazioni provenienti dallo spazio penetrino l'atmosfera con conseguenze che potrebbero farsi sentire sull'elettronica dei satelliti e degli aerei", osserva Mandea. La migrazione del Polo Nord magnetico, invece, può avere conseguenze per chi utilizza ancora le bussole, là dove i satelliti da posizionamento Gps non coprono le aree con sufficiente accuratezza. Per evitare di seguire rotte errate, infatti, è necessario compensare continuamente la variazione della posizione del Polo Nord magnetico rispetto a quello geografico. Ma se per l'uomo la variazione del campo magnetico, almeno nei valori attuali, possono avere conseguenze limitate, le ricadute sul resto del regno animale potrebbero essere pesanti. A cominciare dalla mutazione delle rotte migratorie.

FORZE DI MAREA E TREMORI SISMICI


Le forze gravitazionali esercitate dal Sole e dalla Luna sono in grado di influenzare sottili movimenti sismici, almeno per quanto riguarda la faglia di San Andreas: è questo il risultato di uno studio condotto da ricercatori dell'Università della California a Berkeley, pubblicato sulla rivista “Nature”.

Nello specifico, si tratterebbe di deboli tremori tellurici dovuti alla presenza fra i 15 e i 25 chilometri di profondità di uno strato idrico sottoposto a una pressione elevatissima, tale da portarlo a comportarsi come un lubrificante nei confronti degli strati di roccia circostante che potrebbero così subire facilmente piccoli scivolamenti.

"I tremori che registriamo sembrano essere estremamente sensibili a cambiamenti minimi nello stress”, ha osservato Roland Bürgmann, che con Robert Nadeau e Amanda M. Thomas ha condotto la ricerca. "Avevamo già osservato che onde sismiche provenienti dall'altra parte del globo sono in grado di innescare dei tremori, come nella zona di subduzione di Cascadia al largo della costa dello Stato di Washington con il terremoto di Sumatra dello scorso anno, o il terremoto di Denali del 2002, che li aveva innescati in diverse faglie della California. Ora abbiamo anche constatato che le forze di marea dovute al Luna e al Sole modulano questi tremori.”

"La grossa scoperta è che in profondità ci sono fluidi ad altissima pressione, a pressione litostatica, il che corrisponde alla pressione equivalente al peso di tutta la roccia soprastante, che ha uno spessore dai 15 ai 30 chilometri”, spiega Nadeau. "A una pressione così alta l'acqua fa da lubrificante per la roccia, rendendo la faglia molto debole.”

"Lo stress è di molti, molti ordini di grandezza inferiore alla pressione che c'è là, e questo è davvero molto sorprendente. E' come se poteste spingere con una mano e la faglia si spostasse”, ha detto Bürgmann. In effetti, lo stress di taglio dovuto al Sole alla Luna e alle maree oceaniche è pari a circa 100 Pascal, mentre la pressione a 25 chilometri di profondità corrisponde a circa 600 megaPascals, ossia sei milioni di volte superiore.

Secondo i ricercatori, anche se le forze di marea esercitate dalla Luna e dal Sole non sono in grado di indurre direttamente dei terremoti, possono innescare sciami di tremori profondi che a loro volta possono aumentare la probabilità di terremoti nell'area soprastante alle faglie interessate.

L'ALBERO PIU' VECCHIO DEL MONDO


E’ una Jurupa, vetusta quercia trovata su una collina della California, la pianta più antica del mondo sopravvissuta per 13 mila anni dall’ultima era glaciale ad una serie di eventi climatici devastanti: è Jurupa, una vetusta quercia. Scoperta da ricercatori dell’università di Davis, in California, la lunga storia di questa quercia è raccontata sull’Indipendent.

Della specie Quercus palmeri, questa quercia millenaria è stata soprannominata Jurupa dal nome del luogo in cui vive in California, sulle montagne omonime della contea di Riverside.

Finora si riteneva che gli alberi matusalemme della terra fossero degli abeti rossi di 8 mila anni di età abitanti nella parte occidentale della Svezia e scoperti da Leif Kullman della università di Umea. Ma sempre per restare in tema di “vetusta”, non meno stupefacente è l’arbusto di 43 mila anni fa clonato in Australia dalla botanica Natalie Tapson dei giardini botanici di stato, della specie Lomatia Tasmanica.

In Italia l’albero più antico è l’oleastro di San Baltolu di Luras, in provincia di Sassari, un olivo selvatico alto 15 metri e vecchio 3000 anni. Ma nell’invidiabile graduatoria nazionale si può anche annoverare il Castagno dei cento cavalli, del Parco dell’Etna, nel comune di Sant’Elfio, che avrebbe un’età compresa tra i 2 e i 3000 anni. Invece sempre in California c’è un albero che dalla sua età ha preso il nome, Matusalemme appunto, un pino che potrebbe avere qualcosa come 5000 anni e che vive a 4000 metri d’altezza presso Las Vegas.

Jurupa è unica nel suo genere: a insospettire i ricercatori sul conto di questo albero, sospetti che li hanno indotti poi a studiarlo, alcune stranezze sia della sua foggia sia del luogo in cui si trova. Infatti di solito le querce di questa specie si trovano in luoghi più freddi e ad altitudini maggiori, invece questo strambo albero a cespuglio, che copre una larghezza di circa 25 metri, si trova in una zona inospitale, la macchia tipica dei deserti nordamericani, incuneato tra massi di granito e spazzato dal vento.

Inoltre anche la sua foggia è strana perché è fatto di tantissimi cespugli che sono cloni l’uno dell’altro e che producono ghiande sterili. Questo suggerisce che la quercia è come un gruppo di cloni tutti originati da un unico individuo, come confermato dai test del Dna, ha spiegato Michael May, uno degli autori del lavoro. Solo questo suo modo di crescere, ha aggiunto i ricercatori sulla rivista Plos One, le ha permesso di sopravvivere a innumerevoli incendi, periodi di siccità, al freddo estremo, a tempeste e fortissime raffiche di vento.

Attraverso lo studio degli anelli di crescita di Jurupa, ha spiegato il coordinatore del lavoro Jeffrey Ross-lbarra, si stima che l’albero cresca lentissimo circa 1,2 millimetri l’anno e che sia lì da 13 mila anni. Jurupa «sembra davvero essere l’ultimo superstite rimasto di una vegetazione boscosa che occupava le vallate di queste zone durante lultima era glaciale», ha concluso Andrew Saunders, altro autore del lavoro.

L'ALCHIMIA DEI SUPERATOMI


Se trasformare il piombo in oro resta un sogno, un'alchimia simile altrettanto conveniente dal punto di vista economico è possibile sfruttando i "superatomi": è quanto sostiene in un articolo pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS) un gruppo di ricercatori della Penn State che ha mostrato come alcune combinazioni di atomi possiedono una "firma" elettronica che mima perfettamente quella di altri elementi.

"La scoperta può portare a materiali molto più economici per moltissime applicazioni, come nuove fonti di energia, tecniche di abbattimento di inquinanti e catalizzatori per processi chimici", ha osservato Evan Pugh, uno degli autori.

I superatomi sono gruppi di atomi che esibiscono alcune proprietà di singoli atomi. A. Welford Castleman Jr., che ha diretto lo studio, aveva già mostrato in lavori precedenti che particolari gruppi di alluminio 13 si comportano come un singolo atomo di iodio e che aggiungendo un ulteriore elettrone a quel sistema, esso assume caratteristiche di un gas nobile.

Per esaminare queste somiglianze i ricercatori hanno sfruttato una tecnica particolare: "La spettroscopia fotoelettronica con imaging misura l'energia necessaria a rimuovere gli elettroni da vari strati elettronici di atomi o molecole, mentre contemporaneamente cattura istantanee di questi eventi con una fotocamera digitale", ha detto Castleman.

"Il metodo ci permette di determinare le energie di legame degli elettroni e di osservare direttamente la natura degli orbitali in cui gli elettroni si ritrovavano prima del loro distacco. Abbiamo scoperto che la quantità di energia richiesta per rimuovere elettroni da una molecola di monossido di titanio è la stessa di quella richiesta per rimuovere elettroni da un atomo di nichel. Lo stesso vale per i sistemi monossido di zirconio-palladio e carburo di tungsteno-platino. Il punto chiave è che tutte queste coppie sono composte di specie isoelettroniche, che sono atomi con la stessa configurazione elettronica", osserva Castleman, sottolineando che il termine in questo caso si riferisce al numero di elettroni presenti nel guscio esterno di un atomo o di una molecola.

"Osservando la tavola periodica si può predire che il monossido di titanio sarà un superatomo di nichel. Se partiamo dal titanio, che ha quattro elettroni nel guscio esterno, e ci spostiamo di sei elementi a destra, in quanto l'ossigeno ha sei elettroni nel guscio esterno, finiamo su un elemento, il nichel, che ha 10 elettroni esterni, che lo fanno isoelettronico con la molecola che risulta dalla combinazione di titanio e ossigeno. Abbiamo pensato che la coincidenza fosse curiosa. Abbiamo provato con altri elementi e abbiamo visto emergere uno schema."

"Il platino è utilizzato in quasi tutti i catalizzatori per auto, ma è molto costoso. Per contro il carburo di tungsteno, che imita il platino, è economico. Analogamente il palladio utilizzato in certi processi di combustione può essere mimato dal monossido di zirconio, che è meno caro di un fattore 500", ha concluso Castleman.

DEVIEREMO APOPHIS PRIMA DELL'IMPATTO


In un grigio palazzo della periferia di Mosca, qualcuno sta lavorando per salvare il mondo dalla fine imminente. Un gruppo di scienziati studia mappe astronomiche, pianifica missioni spaziali e di tanto in tanto si ripassa in dvd il kolossal hollywoodiano "Armageddon". Perché per salvare l'umanità dalla catastrofe sarà necessaria tanta tecnica, nuove tecnologie ma anche quello che qualcuno ha già definito "stile cinematografico".

L'obiettivo non è da poco: bisogna impedire che si schianti sulla terra il gigantesco asteroide Apophis. E il pericolo esiste davvero. Esperti di tutto il mondo hanno calcolato che Apophis potrebbe schiantarsi sulla Terra tra ventisei anni. Esattamente il 13 aprile 2036, domenica di Pasqua. L'impatto creerebbe un cratere largo quattro chilometri e profondo 500 metri, se cadesse in zone abitate i morti sarebbero milioni. L'annuncio della decisione russa di lavorare per la salvezza della Terra l'ha dato giovedì Anatolj Perminov, direttore della Roskosmos, l'ente spaziale russo. "Davanti a una minaccia così grande per l'intero pianeta - ha detto - dobbiamo pensare a una missione spaziale, non possiamo starcene con le mani in mano".

E per dare un senso universale al suo appello ha invitato la Nasa, l'ente europeo e l'emergente industria spaziale cinese a collaborare all'impresa. Perminov, esperto di propulsori per missili, dice di avere le idee chiare, anche se le tiene quasi tutte top secret. "Abbiamo il tempo - dice - per realizzare un velivolo spaziale che possa evitare l'impatto dell'asteroide con la Terra. Senza distruggerlo, né provocare esplosioni nucleari. Renderemo pubblico il programma solo quando sarà definito". Dunque, una missione con uomini a bordo forse scelti tra i cosmonauti che si addestrano nella città delle stelle a venti chilometri da Mosca e lanciati dalla base di Baikonour.

L'ente russo sa bene di aver recuperato in prestigio tra gli altri enti spaziali. Perminov ha visto il declino di finanziamenti della Nasa, ha accolto con soddisfazione la richiesta americana di utilizzare i vettori Soyuz per collocare in orbita i loro satelliti e si gode questo momento di ritrovata supremazia dopo i ripetuti smacchi dei decenni passati.

Ma qual è il progetto russo per evitare l'Armageddon del 2036? Tra le tante ipotesi fatte negli ultimi anni, forse la più credibile è quella del "trattore gravitazionale": un'astronave lanciata il più vicino possibile all'asteroide che aggancerebbe "il distruttore" solo con la propria forza di gravità. A questo punto, come in un film, gli astronauti trainerebbero l'asteroide killer lontano, per poi abbandonarlo al suo destino. Più complicata da immaginare l'idea delle vele solari da agganciare all'asteroide. Il vento solare farebbe il resto, portandosi via la minaccia. E non manca una proposta in apparenza fantasiosa che pare venga invece presa sul serio da Perminov e i suoi: cospargere la faccia esposta al sole dell'asteroide di vernice bianca. Sembra incredibile ma gli scienziati giurano che, se si trovasse la soluzione tecnica per questo lavoro da "imbianchini spaziali", i raggi solari verrebbero respinti dal corpo celeste con una forza tale da deviarne la traiettoria.

Ipotesi sulle quali Perminov non si esprime. Il tasto che gli preme battere è quello del pericolo imminente e della soluzione da trovare al più presto. Del resto proprio dai cugini della Nasa è partito l'anno scorso l'allarme più clamoroso. Russel Schweicart, astronauta dell'Apollo 9 - quella che provò nell'orbita terrestre le fasi di allunaggio che avrebbe poi compiuto l'Apollo 11 - ha chiesto addirittura all'Onu di intervenire per allontanare Apophis. Inoltre salvare il mondo potrebbe anche far riscuotere ricchi premi. Sia la Nasa che Roskosmos sanno bene che ogni asteroide nasconde giacimenti di inestimabile valore di minerali come nickel, cobalto, platino. Proprio gli americani stanno studiando missioni che, deviando vicino alla Terra asteroidi meno minacciosi di Apophis, potrebbero trasformarli in ricchissime miniere spaziali. Non è escluso che nel prossimo incontro, voluto da Perminov tra tutti i massimi enti spaziali del mondo, si discuta non solo di come salvare il pianeta ma di come ottenerne vantaggi economici.