mercoledì 7 ottobre 2009

SCOPERTO SUPERVULCANO SPENTO CHE POTEVA OSCURARE IL CIELO


Scoprire un antico e gigantesco vulcano nelle Alpi Occidentali, tra le vallate e i rilievi della Valsesia, non è da tutti giorni. Ma trovare che questo «supervulcano fossile» espone tutto il suo sistema di alimentazione, «dalla cima agli inferi», come dicono soddisfatti gli scopritori, è ancora più eccezionale. La straordinaria avventura scientifica è frutto di una collaborazione italo-americana che ha come rispettivi capi il geologo James Quick, prorettore all’università di Dallas, e Silvano Sinigoi, professore di petrografia all’Università di Trieste.
«Di supervulcani, cioè di apparati vulcanici di grandi dimensioni, che nel passato hanno prodotto eruzioni notevoli, con la formazione di caldere del diametro di svariati chilometri, ce ne sono diversi in tutto il mondo. Averne trovato e descritto uno nelle Alpi Occidentali è sicuramente una grande soddisfazione», dice il professor Sinigoi, da noi raggiunto per telefono da proprio alla conclusione di un sopralluogo in Valsesia con il collega Quick. Ma l’autentica novità della scoperta, annunciata e descritta nell’ultimo numero della rivista internazionale «Geology», sta nel fatto che per la prima volta è possibile guardare in diretta le parti profonde e inaccessibili dei condotti attraverso cui il vulcano era alimentato. «Ciò è stato possibile grazie al fatto che l’orogenesi alpina, cioè quella lenta dinamica che ha portato al sollevamento e alla formazione delle Alpi ha rivoltato la crosta terrestre facendo emergere tutto l’apparato magmatico che un tempo stava sotto il vulcano, fino a una profondità di circa 25 km, mettendoci a disposizione per la prima volta uno spaccato del suo complesso sistema di alimentazione –aggiunge il professor Sinigoi- . Per questo non esito a dire che il nostro supervulcano fossile della Valsesia è finora unico al mondo».
Collocato nell’area tra Varallo e Borgo Sesia, il supervulcano fu attivo circa 290 milioni di anni fa, dando luogo a possenti eruzioni che erano in grado di oscurare l’atmosfera e alterare il clima globale. Poi, dopo alcuni milioni di anni di attività, ebbe tregua e, non più alimentato dai magmi profondi, collassò su se stesso, formando una caldera, cioè uno sprofondamento, di una quindicina di km di diametro. «Dallo studio del suo sistema di alimentazione –conclude Sinigoi- stiamo imparando che la semplificazione scolastica dei vulcani, con una camera magmatica profonda che alimenta i crateri in superficie attraverso un sistema di condotti, è troppo schematica e sicuramente dovrà essere modificata».
Il supervulcano della Valsesia, in altri termini, anche se ormai è inattivo, promette di rivoluzionare le nostre conoscenze sulla struttura profonda di quella che gli antichi greci indicavano come la «fucina di Efesto», il temibile dio del fuoco. Soddisfazione nella comunità scientifica italiana, per il risultato dei ricercatori italo-americani: «Le ricerche condotte dai professori Quick, Sinigoi e loro collaboratori, sono di estremo interesse per almeno due ordini di motivi –commenta dall’Osservatorio vesuviano il professor Giovanni Orsi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia-. Il primo è che esse permettono di studiare direttamente i processi che avvengono nel sistema di alimentazione di un vulcano, a profondità di chilometri all’interno della crosta terrestre. Il secondo è rappresentato dalle implicazioni che i risultati di queste ricerche hanno sulla definizione del comportamento di un vulcano attivo e, quindi, sulla capacità da parte della comunità scientifica di interpretare correttamente i segnali che esso invia, sia in termini di definizione dello stato attuale sia di previsione di una eventuale eruzione. Questi sono gli obiettivi che la moderna vulcanologia si pone a livello mondiale e, in particolare, in aree vulcaniche densamente abitate come ad esempio l’area napoletana, in Italia».

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