venerdì 30 ottobre 2009

L'OSSIGENO PRIMA DELLA GRANDE OSSIDAZIONE


Circa 2,4 miliardi di anni fa l’atmosfera terrestre subì il cosiddetto Grande evento di ossidazione (GEO), un drastico aumento nei livelli di ossigeno atmosferico. Si trattò, secondo le attuali conoscenze, di un punto di svolta nella storia naturale del pianeta, che aprì la strada allo sviluppo di forme di vita complesse.

In questo quadro rimangono tuttavia irrisolte due questioni: quando cominciò la produzione di ossigeno tramite fotosintesi e quando essa cominciò ad alterare la chimica dell’oceano e dell’atmosfera.

Ora una nuova ricerca guidata da un gruppo di geologi dell’Università della California a Riverside corrobora l’ipotesi che la produzione di ossigeno cominciò nell’oceano almeno 100 milioni di anni prima del GEO, e consente di dimostrare almeno in parte come anche basse concentrazioni di ossigeno possano avere profondi effetti sulla chimica dell’oceano.

Per arrivare ai risultati, i ricercatori hanno analizzato alcuni campioni di argilliti nere provenienti dall’Australia occidentale, che rappresentano essenzialmente resti fossilizzati di un antico fondale marino. La fine successione degli strati al suo interno infatti consente di ricostruire la storia evolutiva della chimica oceanica.

In particolare, le argilliti hanno rivelato che episodi di accumulo di solfuro d’idrogeno nelle profondità oceaniche in acque prive di ossigeno avvennero all’incirca 100 milioni di anni prima del GEO, vale a dire fino a 700 milioni di anni prima di quando previsto dai precedenti modelli della chimica dell’oceano primordiale.

Come sottolineano i ricercatori, la presenza di solfuro d’idrogeno nell’oceano è considerata una firma inequivocabile della produzione fotosintetica di ossigeno 2,5 miliardi di anni fa.

"L'emergere di una fotosintesi pre-GEO è oggetto di un intenso dibattito, e la sua soluzione consentirebbe una comprensione più profonda dell'evoluzione di diverse forme di vita”, ha commentato Timothy Lyons, docente di biochimica dell'UCR e coautore dell'articolo apparso sulla rivista “Science”. "I nostri dati mostrano la presenza di una produzione di ossigeno per via fotosintetica ben prima che le concentrazioni atmosferiche di questo gas raggiungessero una minima percentuale di quelle attuali, il che lascia supporre che le reazioni chimiche che consumano ossigeno controbilanciassero la produzione di questo gas”.

I ricercatori così ipotizzano che la presenza di piccole quantità di ossigeno abbia stimolato la prima evoluzione delle cellule eucariotiche milioni di anni prima del GEO.

"Questa produzione di ossigeno iniziale ha posto le basi per lo sviluppo di specie animali avvenuta almeno due miliardi di anni dopo”, ha concluso Lyons.

UN LAMPO DALL'UNIVERSO PRIMORDIALE


Risale a 13,7 miliardi di anni fa la gigantesca esplosione cosmica rivelata il 23 aprile scorso dal satellite spaziale Swift; già il giorno dopo gli astronomi hanno potuto puntare i telescopi in direzione dell’evento, denominato GRB 090423, e nel giro di una settimana raccogliere e registrare i primi segnali con il radiotelescopio del Very Large Array (VLA) situato a terra, fino alla sua scomparsa, due mesi dopo. Si è così potuto verificare la natura dell’evento: si è trattato di un burst di raggi gamma (GRB).

"Questa esplosione si è verificata solo 630 milioni di anni dopo il big bang e permette di gettare uno sguardo senza precedenti a un’epoca in cui l’universo era molto giovane e nel mezzo di drammatici cambiamenti”, ha spiegato Dale Frail del National Radio Astronomy Observatory. “La primordiale oscurità veniva trafitta dalla luce delle prime stelle e le prime galassie cominciavano a formarsi quando questa stella, che apparteneva a una delle prime generazioni, esplose”.

Grazie alle misurazioni effettuate, gli studiosi hanno poi concluso che l’evento è stato più energetico dei principali GRB finora osservati, e che l’esplosione, di forma pressoché sferica, ha dato origine a un tenue quanto uniforme involucro gassoso intorno alla stella. Ma ciò che più ha sorpreso è stata la determinazione della sua distanza, ovvero della sua età.

Gli astronomi ipotizzano che le prime stelle dell’universo fossero molto differenti da quelle di formazione successiva, ovvero più luminose, più calde e più massicce. E l’unico modo di dedurne le caratteristiche è quello di osservare eventi quali GRB 090423 o ancora più distanti.

“È importante che in queste osservazioni siano utilizzati diversi tipi di telescopi: il nostro gruppo di ricerca ha combinato i dati del VLA con quelli di altri strumenti nello spettro X o infrarosso per comporre una sorta di mosaico delle diverse condizioni fisiche dell’esplosione”, ha aggiunto Derek Fox della Pennsylvania State University. "Per questo attendiamo con ansia il completamento, previsto per il 2012, dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA), e dell’Expanded Very Large Array (EVLA) che consentiranno ulteriori osservazioni di GRB molto distanti e antichi.”

DA STAMINALI A GAMETI


Trasformare cellule staminali umane in cellule cellule uovo e spermatozoi: è quanto è riuscito a un gruppo di ricercatori dello Stanford University Medical Center che illustrano la scoperta in un articolo pubblicato online sul sito di "Nature".

"Dal 10 al 15 per cento delle coppie non sono fertili: quasi la metà dei casi è dovuto all'incapacità di produrre spermatozoi o ovociti. Inibire o aumentare l'espressione dei geni coinvolti in vivo per capirne la ragione è impossibile e contrario all'etica. Definire la 'ricetta' genetica necessaria a sviluppare cellule germinali in laboratorio ci darà gli strumenti per capire che cosa non va in queste persone", osserva Renee Reijo Pera, che ha diretto la ricerca.

Lo sviluppo dei gameti umani - ossia degli spermatozoi e delle cellule uovo - non può infatti essere studiata adeguatamente nel modello animale: "Finora abbiamo condotto studi sui topi per capire come anche nell'uomo si differenziano spermatozoi e cellule uovo a partire dalle cellule staminali, ma i geni riproduttivi coinvolti non sono gli stessi. Questa è la prima prova che si possono creare in laboratorio cellule gameti umani funzionali."

Ricostruendo i punti salienti dello sviluppo di spermatozoi e cellule uovo, i ricercatori sperano cioè di poter identificare con precisione i problemi che possono portare all'infertilità e prospettare possibili soluzioni.

Già negli anni novanta il gruppo di ricerca di Reijo Pera aveva identificato diversi geni coinvolti nella sterilità maschile, fra i quali alcuni appartenenti alla cosiddetta famiglia dei geni DAZ, che codificano proteine che si legano all'RNA e non ai fattori di trascrizione che più spesso modulano gli eventi cellulari.

In questo studio i ricercatori hanno trattato cellule staminali embrionali umane con proteine che stimolano la proliferazione delle cellule staminali, per poi isolare quelle che iniziavano a esprimere geni specifici delle cellule germinali, circa il 5 per cento del totale. Queste cellule, inoltre, i ricercatori hanno anche osservato dei cambiamenti per bloccare lo sviluppo di tratti che avrebbero potuto interferire con la capacità di continuare a funzionare da cellule staminali indirizzandole a una specifica differenziazione. (Tecnicamente, hanno osservato la rimozione di gruppi metile dal DNA.)

Successivamente, silenziando o facendo esprimere in maniera maggiore i geni di tre gruppi di geni DAZ hanno studiato come ciascuno di essi influisse sullo sviluppo di spermatozoi e cellule uovo.

In questo modo si è scoperto che un sottogruppo dei geni DAZ, detti DAZL, si attiva molto precocemente nello sviluppo delle cellule germinali, mentre altri due gruppi, DAZ1 e BOULE, stimolano la divisione di quelle cellule, portandole in una fase successiva a una differenziazione in spermatozoi e cellule uovo.

L'aumento dell'espressione congiunta delle tre proteine codificate dai geni DAZL, DAZ1 e BOULE ha permesso ai ricercatori di generare cellule aploidi, ossia dotate di metà esatta del corredo cromosomico completo delle cellule normali. Corredo cromosomico che si completa quando spermatozoo e cellula uovo si fondono nella fecondazione.

TRASFORMARE LA LUCE IN VIBRAZIONI


Un gruppo di ricercatori del California Institute of Technology (Caltech) a Pasadena è riuscito a ottenere una micro-sbarretta di silicio che è in grado di convertire con elevata efficienza la luce in vibrazioni e viceversa. Questo risultato apre la strada a un nuovo campo d'indagine della fisica e alla progettazione di microcircuiti ottici di nuova concezione.

Alcuni anni fa Kerry Vahala, sempre del Caltech, era riuscito a mettere in vibrazione un micro-dischetto di silicio con la luce trasmessa da una fibra ottica e più di recente Daniel Gauthier della Duke University a Durham, era riuscito a far vibrare la fibra ottica stessa, ma gli effetti erano di intensità e durata estremamente ridotte.

Ora, Oskar Painter, Kerry Vahala, Matt Eichenfield e collaboratori hanno progettato un'apparecchiatura che - coniugando i principi della fotonica con quelli della fononica - aumenta il livello di interazione fra luce e vibrazioni di diversi ordini di grandezza, aprendo potenzialmente le porte a microchip ottici in cui vibrazioni di bassa frequenza controllano segnali ottici ad alta frequenza o viceversa.

Da più di 10 anni sono stati sviluppati i cosiddetti cristalli fotonici, materiali in grado di trasmettere la luce che, dotati di uno schema regolare di cavità, ne alterano il cammino. L'alterazione può essere tale da interdire la propagazione di alcune lunghezze d'onda che finiscono per interferire e cancellarsi; con una accurata calibrazione della disposizione e delle dimensioni dei buchi è però possibile far si che esse, invece di cancellarsi, restino intrappolate nei cristalli. Anche per le onde sonore è possibile costruire strutture analoghe.

Ora, come riferiscono in un articolo pubblicato su "Nature" online, Eichenfield, Painter e colleghi sono riusciti a ottenere un cristalli ibrido fotonico/fononico a base di silicio delle dimensioni di 1x20 micrometri dotato di un'efficienza di conversione tale da poter essere in prospettiva utilizzato per la creazione di circuiti optomeccanici.

martedì 20 ottobre 2009

SCOPERTA UN ELETTRICITA' MAGNETICA


Un gruppo di ricercatori del London Centre for Nanotechnology (LCN) a Oxford ha scoperto un equivalente magnetico dell'elettricità: singole cariche magnetiche che possono comportarsi e interagire come quelle elettriche. Nella loro ricerca ("Measurement of the charge and current of magnetic monopoles in spin ice"), pubblicata su "Nature", i fisici hanno sfruttato i monopoli magnetici che possono essere ottenuti all'interno di cristalli "spin ice".

L'esistenza dei monopoli magnetici - l'analogo magnetico delle cariche elettriche - fu predetta un secolo fa, ma la loro osservazione è stata possibile solo pochissimo tempo fa: è infatti nel settembre scorso che due gruppi di ricerca sono riusciti a dimostrare sperimentalmente, in modo indipendente, l'esistenza dei monopoli, e unicamente nei cristalli di spin ice.

Questi ultimi sono cristalli che formano una piramide di atomi carichi, o ioni, disposti in modo tale che, una volta raffreddati a temperature bassissime, il materiale esibisce la presenza di piccoli "pacchetti" discreti di cariche magnetiche.

In questa nuova ricerca i ricercatori diretti da Steve Bramwell hanno mostrato che queste "quasi-particelle" di carica magnetica possono muoversi assieme formando una corrente magnetica simile a quella formata dagli elettroni in movimento, dando vita a quella che hanno chiamato "magnetricità", della quale hanno potuto anche misurare l'intensità e determinare l'unità di carica magnetica.

I monopoli osservati derivano dal disturbo allo stato magnetico di cristalli di spin ice prodotto da un fascio di muoni generati grazie alla SIS Neutron and Muon Source dell'LCN.

COME LE PIANTE SI RICONOSCONO


Le piante sono in grado di riconoscere i propri parenti: lo ha mostrato una ricerca di alcuni botanici dell'Università del Delawar a Newark che ne parlano in una articolo pubblicato sulla rivista "Communicative & Integrative Biology".

In una serie di esperimenti, giovani pianticelle di Arabidopsis thaliana sono state esposte a un mezzo liquido contenente secrezioni radicali di piante "sorelle", di piante non imparentate e loro stesse, misurando poi la lunghezza della più lunga radice laterale e dell'ipocotile, la parte del fusticino compresa tra i cotiledoni e l'apice radicale. In un altro esperimento gli essudati radicali sono stati inibiti con una sostanza, l'ortovanadato di sodio, che li blocca senza peraltro interferire con la crescita delle radici. E' risultato che l'esposizione agli essudati di piante estranee induce la formazione di radici laterali più grandi e profonde.

Per lo studio, diretto da Harsh Bais, sono state utilizzate oltre 3000 piante - tutte di origine selvatica, per evitare i problemi connessi con le varietà tipiche di laboratorio, spesso imparentate far loro - per ciascuna delle quali sono stati registrati quotidianamente i dati di crescita.

Le piante estranee che crescono le une vicine alle altre, osserva Bais, sono spesso più basse perché gran parte della loro energia viene destinata alla crescita delle radici, mentre nel caso di piante sorelle, che non cercano di crescere l'una a scapito dell'altra, le radici sono spesso più superficiali e le loro foglie si toccano e intrecciano, cosa che difficilmente avviene fra le piante non imparentate, che tendono a crescere dritte verso l'alto e senza contatti fra loro.

Ora i ricercatori intendono capire come questa scoperta possa influenzare la crescita di piante sorelle nei campi a monocultura, e come possano crescere senza una serrata competizione. "E' possibile che quando piante imparentate crescono insieme, possano bilanciare l'assunzione di nutrienti e non mostrarsi avide", ipotizza Bais.

AI CONFINI DEL SISTEMA SOLARE


La prima mappa di tutto il cielo sviluppata dalla sonda Interstellar Boundary Explorer (IBEX) della NASA ha rivelato sorprendenti e intense interazioni tra il sistema solare e lo spazio interstellare.

"I risultati di IBEX sono veramente interessanti, poiché le emissioni non somigliano ad alcuna delle attuali teorie o modelli di questa regione mai osservata”, ha commentato David J. McComas, principal investigator di IBEX e ricercatore dello Space Science and Engineering Division del Southwest Research Institute. "Ci si aspettava di vedere piccole e graduali variazioni al confine con lo spazio interstellare per circa 16 miliardi di chilometri. IBEX invece ci sta mostrando una fascia molto stretta due-tre volte più brillante di qualunque altro oggetto osservabile nel cielo."

Com'è noto, dal Sole soffia in ogni direzione un “vento solare” di particelle cariche ad alta velocità che produce una bolla gigante nello spazio interstellare nota come eliosfera, una regione di spazio dominata dall’influenza del Sole in cui sono posti la Terra e gli altri pianeti.

Nel suo moto, il vento solare raccoglie i frutti della ionizzazione delle particelle neutre provenienti dallo spazio interstellare. IBEX misura gli atomi neutri energetici (ENA) prodotti nella regione di confine tra l’eliosfera e il mezzo interstellare locale che viaggiano a velocità comprese tra 0,8 e 4 milioni di chilometri all’ora. Come sottolineato nell'articolo pubblicato su "Science", IBEX ha anche rivelato per la prima volta idrogeno e ossigeno nel mezzo interstellare.

È così stato possibile mappare l’interazione globale dell’eliosfera, anche se, come avvertono i ricercatori, occorrerà più tempo per comprendere pienamente i dati IBEX.

CREATI FALSI RICORDI AGENDO SUI NEURONI


Manipolando direttamente l'attività di singoli neuroni, un gruppo di ricercatori è riuscito a indurre nel moscerino della frutta il ricordo di un'esperienza negativa mai avvenuta. L'esperimento, condotto presso l'Università di Oxford è decritto in un articolo pubblicato sulla rivista "Cell".

"I moscerini hanno la capacità di apprendere, ma i circuiti che sovrintendono alla formazione della memoria erano sconosciuti", ha detto Gero Miesenböck, che ha diretto lo studio. "Noi siamo stati in grado di 'incastrare' il componente essenziale di 12 cellule. Si tratta di una risoluzione notevole."

Queste cellule, osservano i ricercatori, sono sufficienti a gestire un problema cognitivo tutt'altro che semplice: apprendere ad associare un particolare odore a qualcosa di negativo, come una scossa elettrica. In pratica queste cellule creano tracce mnemoniche che il moscerino sfrutta per evitare le fonti di quegli odori.

Per identificare gli esatti neuroni responsabili di questi ricordi fra le migliaia che costituiscono il cervello del moscerino della frutta, i ricercatori hanno utilizzato una particolare tecnica, chiamata optogenetica, grazie alla quale un semplice lampo di luce è sufficiente per innescare la liberazione all'interno dei neuroni di particolari molecole, precedentemente segregate entro vescicole e in grado di stimolare l'attività dei neuroni stessi.

Attraverso la stimolazione di quelle 12 cellule, Miesenböck e colleghi sono dunque riusciti a instillare il ricordo di un evento spiacevole mai avvenuto nella memoria del moscerino.

"Abbiamo cercato di prendere fenomeni psicologici apparentemente eterei per ridurli a meccanismi e vedere, per esempio, come l'intelligenza necessaria ad adattarsi a un ambiente in cambiamento possa essere ricondotta a interazioni fisiche fra cellule e molecole", ha dichiarato Miesenböck . "Il problema è: come si ottiene l'intelligenza da parti non intelligenti?"

Grazie a questo approccio di "scrittura diretta della memoria", sottolinea Miesenböck, è quindi possibile raggiungere un nuovo livello di analisi delle funzioni cerebrali prima inarrivabile: finora le neuroscienze sono dipese in maniera essenziale dalla registrazione dei livelli di attività neuronale e dal tentativi di correlarli a percezioni, azioni, cognizioni: "Prendere il controllo di circuiti cerebrali di rilievo e produrre direttamente questi stati è uno strumento molto più potente".

"Come regola generale, la biologia tende a essere conservativa. E' raro che l'evoluzione 'inventi' uno stesso processo più volte, specie se fondamentale", ha concluso Miesenböck, e per questo anche un organismo così semplice può rivelare di avere "una vita mentale sorprendentemente ricca".

ANCHE LA LUCE PUO' ESSERE SUPERFLUIDA


Dopo l’elio a bassa temperatura, un altro sistema fisico del tutto diverso ha manifestato in opportune conduzioni il fenomeno della superfluidità: la luce che attraversa un mezzo materiale.

È quanto ha stabilito una ricerca frutto della collaborazione tra Iacopo Carusotto, fisico sperimentale del centro BEC di INFM-CNR di Trento e il gruppo di fisici teorici diretto da Cristiano Ciuti all'Università di Paris 7.

A differenza delle radiazione ordinaria, che viene diffusa e rifratta nel passaggio nei mezzi trasparenti, quella prodotta in quest’ultima ricerca è caratterizzata da legami talmente forti tra i fotoni che complessivamente appare “scorrere” senza attrito e senza ostacoli, un po’ come fanno per l’appunto i superfluidi.

L’apparato che ha permesso la scoperta è costituito da un laser altamente stabile, i cui parametri possono essere controllati dagli sperimentatori, che incide su un bersaglio costituito da un materiale semiconduttore noto come arseniuro di gallio, che di solito degrada il fascio di luce incidente. In corrispondenza dei parametri previsti dai calcoli teorici, il laser ha attraversato il semiconduttore senza alcuna interferenza: un comportamento che non era mai stato osservato in precedenza.

«I comportamenti superfluidi hanno una straordinaria importanza teorica e pratica: basti pensare ai magneti a superconduttore che sono alla base dell’acceleratore LHC di Ginevra", ha spiegato Carusotto, coautore dell'articolo apparso su "Nature Physics". E così per la luce superfluida si possono già prevedere applicazioni brillanti: una luce capace di attraversare indisturbata un materiale può portare a enormi benefici nello sviluppo delle fibre ottiche. E potrebbe permettere non solo il trasporto dell’informazione, come attualmente accade, ma anche la sua elaborazione: enormi quantità di dati potrebbero essere trattate in via ottica da chip ottico-elettronici, a velocità impossibili per l’elettronica attuale. Nuovi chip velocissimi, ma capaci anche di risparmiare molta energia rispetto agli attuali. Un risparmio piccolo in proporzione, ma enorme se si pensa che ogni giorno sono miliardi i chip utilizzati al mondo, tra computer, telefoni, televisori e automobili”.

IL COLEOTTERO-SPIA


Un gruppo di ricercatori dell'Università della California a Berkeley, nel quadro di una ricerca finanziata dalla DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), è riuscito a impiantare dei sistemi di stimolazione neuromuscolare in alcuni coleotteri, così da controllarne da remoto il volo.

Come riferiscono in un articolo pubblicato su “Frontiers in Integrative Neuroscience”, Hirotaka Sato, Michel Maharbiz e collaboratori, sugli insetti sono stati impiantati micro-stimolatori, micro-batteria e micro-ricevente quando erano ancora allo stato pupale. Successivamente, una volta raggiunta la forma adulta, sono stati in grado di stimolarne il cervello in modo da indurli a prendere il volo e dirigersi dove desideravano.

Negli esperimenti sono stati utilizzati coleotteri di varia taglia, da Cotinis texana, lunga poco più di due centimetri, fino alla grande Megasoma elephas, che raggiunge i 20 centimetri, passando per Mecynorhina torquata (7 centimetri).

In precedenza erano già stati sviluppati tentativi di "telecomandare" in modo analogo degli insetti, e in particolare scarafaggi, ma questa è la prima volta che si riesce a controllare da remoto insetti volanti.

In realtà, l'ipotetica applicazione militare di questi scarabei “cyborg” appare alquanto problematica – ha osservato Noel Sharkey noto esperto di intelligenza artificiale dell'Università di Sheffield - dato che, esclusa l'alternativa illegale di utilizzarli come vettore di agenti chimici o biologici, ciò richiederebbe l'ulteriore aggiunta di un sistema di localizzazione GPS dell'insetto ed eventualmente di una microtelecamera, eccedendo però così le capacità di trasporto anche delle specie più grandi.

I ricercatori di Berkeley osservano però che questi insetti possono in realtà servire da utili modelli per la messa a punto di micro-robot aerei, o NAV (Nano Air Vehicle), a cui la DARPA è interessata per applicazioni in scenari di battaglia urbana.

venerdì 9 ottobre 2009

BOMBARDATO UN CRATERE LUNARE PER VEDERE SE C'E' ACQUA



Obiettivo centrato. Esattamente come previsto alle 13 e 31 minuti (ora italiana) il razzo Centaur ha colpito la Luna in prossimità del Polo Sud. Punto d'impatto il cratere Cabeus. "La velocità con il quale il razzo, dalpeso di 2.366 kg, ha toccato la Luna era di 9.000 km all'ora", ha spiegato Daniel Andrews, responsabile del progetto LCROSS.

Dopo quattro minuti anche la sonda LCROSS (Lunar Crater Observation and Sensing Satellite), dal peso di 891 kg e che era rimasta agganciata a Centaur fino a questa notte alle 3 e 50 (da quando venne lanciata lo scorso mese di giugno), è stata fatta scontrare con la Luna in un luogo poco distante da quello in cui ha impattato Centaur.

Questa differenza di tempi è servita a far sì che gli strumenti a bordo della LCROSS potessero raccogliere le informazioni dalla nube di detriti prodotti dallo scontro tra Centaur e il suolo lunare, attraverso la quale è penetrata prima di impattare con la superficie. La strumentazione di bordo era composta da fotocamere, in grado di riprendere a diverse lunghezze d'onda, da quella del visibile al vicino e medio infrarosso, da spettrometri, ossia strumenti in grado di analizzare la composizione chimica del materiale fatto innalzare nello spazio e da un fotometro, in grado di misurare la luminosità del flash prodotto dall'impatto di Centaur con la Luna.

Contrariamente a quanto ipotizzato, però, nel momento dell'impatto non vi è stato osservato alcun lampo luminoso, ma gli strumenti a bordo della sonda LCROSS hanno comunque raccolto tutte le informazioni previste e dalle analisi successive è risultato che essa è riuscita a fotografare il cratere che ha prodotto Centaur. Alle 13 e 35 infine, anche LCROSS è impattata sulla superficie lunare. "Tutto OK, è stato un grande lavoro", ha detto Rusty Hunt, direttore di volo.

Nonostante la certezza dei dati raccolti la Nasa non si è sbilanciata nel dire se è stata trovata acqua o meno. Da alcuni grandi osservatori invece, tra i 20 che hanno puntato i loro telescopi alla Luna, sono stati raccolti elementi che farebbero pensare che del vapore acqueo è fuoriuscito dal terreno nel momento dell'impatto. Tra questi il telescopio Gemini North e il Keck Telescope posti sulle Hawaii. Altri telescopi invece, tra cui l'Hubble Space Telescope, neccessitano molto più tempo per giungere a dei risultati finali.

La caccia all'acqua ghiacciata è iniziata anni fa, ma solo poche settimane or sono un piccolo drappello di sonde avrebbe dato conferma della sua esistenza. I dati raccolti da LRO (Lunar Reconnaissance Orbiter), una sonda lanciata dallo stesso razzo che ha portato alla Luna LCROSS e dalla sonda indiana Chandrayaan-1, sono tutti a favore della presenza di acqua un po' ovunque sulla Luna ed in particolare proprio in prossimità del Polo Sud.

Tant'è che l'iniziale cratere Cabeus-A scelto come luogo di impatto di Centaur, prima della sua partenza, è stato cambiato con Cabeus (un cratere con un diametro di 96 km e una profondità media di 4 km) proprio perché quest'ultimo sembra presentare una maggiore presenza di ghiaccio al suo interno. I crateri polari infatti, sono luoghi ideali per trattenere il ghiaccio in quanto in alcuni di essi la luce del Sole non riesce mai a penetrarvi e dunque, le temperature rimangono costantemente al di sotto dei -173° C, al punto che in uno di essi si è registrata la temperatura più bassa di tutto il sistema solare, con -240°C. "Se si vuole estrarre acqua dal suolo lunare è necessario capire dove vi è la maggiore concentrazione", ha detto Michael Bicay, direttore scientifico all'Ames Research Center.

Mentre si stanno analizzando i primi dati, il mondo scientifico è diviso sulla provenienza dell'acqua lunare. Le ipotesi che erano state fatte nel passato sostenevano che l'acqua potesse essere arrivata da comete oppure da ioni (atomi con un elettrone in meno) di idrogeno portati dal "vento solare", i quali combinandosi con l'ossigeno presente sulla Luna avrebbero originato l'acqua. "Ci sono anche modelli che danno ragione ad entrambi le ipotesi", ha spiegato Roger Clark dell'U. S. Geological Survey. Ma Arlin Crotts della Columbia University che aveva previsto la presenza di acqua con una ricerca che verrà pubblicata su Astrophysiacl Journal, sostiene che l'acqua lunare potrebbe essere arrivata dal suo interno, "la quale", sostiene Crotts, "è arrivata in superficie attraverso fessure presenti nelle rocce. E' noto, infatti, che nella crosta lunare più profonda c'è acqua e dunque non si capisce perché essa non debba arrivare fin sotto il Sole come arrivano i gas".

mercoledì 7 ottobre 2009

IL NUOVO ANELLONE DI SATURNO


L’anello comincia a 5,95 milioni di chilometri dal pianeta e si estende fino a 11,9 milioni di chilometri. La scoperta di un gigantesco anello attorno a Saturno, il più grandi finora trovato nel sistema solare, ha portato oltre che la sorpresa anche la soluzione di un mistero. L’osservatorio Spitzer della Nasa che guarda nell’infrarosso ha colto intorno al pianeta già famoso per i suoi magnifici anelli la presenza remota di un altro ben più grande anello di polvere. I granelli che lo formano sono praticamente microscopici misurando appena 10 micron (milionesimi di metro). Ma la sensibilità del potente telescopio orbitale lo ha smascherato e misurato: esso si estende sino a 13 milioni di chilometri dal pianeta, vale a dire cinquanta volte più lontano dell’ultimo anello conosciuto noto con la lettera E. La sua orbita è inclinata di 27 gradi rispetto agli altri, giusto come l’orbita della luna Phoebe che sembra essere all’origine della sua formazione. Gli astronomi sostengono che i bombardamenti cosmici subiti da Phoebe abbiano sollevato quel pulviscolo che poi ha dato forma all’anello. Essendo la sua costituzione così debole, le piccole particelle sono soggette a spostamenti sotto l’effetto della pressione della radiazione solare. E queste finirebbero su una delle facce della luna Iapetus rendendola più oscura dell’altra.
È così che si scioglie l’enigma delle zone scure e chiare della luna e per il quale non c’era fino a ieri una spiegazione soddisfacente. Gli anelli saturniani continuano dunque a stupire. Il primo ad osservarli era stato Galileo Galilei che però non era riuscito a vederli per intero perché le sue osservazioni gli avevano fatto cogliere solo due zone luminose laterali. Ma era l’inizio e tra i grandi studiosi, sempre da Padova negli anni Ottanta, ottenne notevoli risultati il professor Giuseppe Colombo che aveva anche scoperto gli esatti movimenti di Mercurio. La storia continua.

SCOPERTO SUPERVULCANO SPENTO CHE POTEVA OSCURARE IL CIELO


Scoprire un antico e gigantesco vulcano nelle Alpi Occidentali, tra le vallate e i rilievi della Valsesia, non è da tutti giorni. Ma trovare che questo «supervulcano fossile» espone tutto il suo sistema di alimentazione, «dalla cima agli inferi», come dicono soddisfatti gli scopritori, è ancora più eccezionale. La straordinaria avventura scientifica è frutto di una collaborazione italo-americana che ha come rispettivi capi il geologo James Quick, prorettore all’università di Dallas, e Silvano Sinigoi, professore di petrografia all’Università di Trieste.
«Di supervulcani, cioè di apparati vulcanici di grandi dimensioni, che nel passato hanno prodotto eruzioni notevoli, con la formazione di caldere del diametro di svariati chilometri, ce ne sono diversi in tutto il mondo. Averne trovato e descritto uno nelle Alpi Occidentali è sicuramente una grande soddisfazione», dice il professor Sinigoi, da noi raggiunto per telefono da proprio alla conclusione di un sopralluogo in Valsesia con il collega Quick. Ma l’autentica novità della scoperta, annunciata e descritta nell’ultimo numero della rivista internazionale «Geology», sta nel fatto che per la prima volta è possibile guardare in diretta le parti profonde e inaccessibili dei condotti attraverso cui il vulcano era alimentato. «Ciò è stato possibile grazie al fatto che l’orogenesi alpina, cioè quella lenta dinamica che ha portato al sollevamento e alla formazione delle Alpi ha rivoltato la crosta terrestre facendo emergere tutto l’apparato magmatico che un tempo stava sotto il vulcano, fino a una profondità di circa 25 km, mettendoci a disposizione per la prima volta uno spaccato del suo complesso sistema di alimentazione –aggiunge il professor Sinigoi- . Per questo non esito a dire che il nostro supervulcano fossile della Valsesia è finora unico al mondo».
Collocato nell’area tra Varallo e Borgo Sesia, il supervulcano fu attivo circa 290 milioni di anni fa, dando luogo a possenti eruzioni che erano in grado di oscurare l’atmosfera e alterare il clima globale. Poi, dopo alcuni milioni di anni di attività, ebbe tregua e, non più alimentato dai magmi profondi, collassò su se stesso, formando una caldera, cioè uno sprofondamento, di una quindicina di km di diametro. «Dallo studio del suo sistema di alimentazione –conclude Sinigoi- stiamo imparando che la semplificazione scolastica dei vulcani, con una camera magmatica profonda che alimenta i crateri in superficie attraverso un sistema di condotti, è troppo schematica e sicuramente dovrà essere modificata».
Il supervulcano della Valsesia, in altri termini, anche se ormai è inattivo, promette di rivoluzionare le nostre conoscenze sulla struttura profonda di quella che gli antichi greci indicavano come la «fucina di Efesto», il temibile dio del fuoco. Soddisfazione nella comunità scientifica italiana, per il risultato dei ricercatori italo-americani: «Le ricerche condotte dai professori Quick, Sinigoi e loro collaboratori, sono di estremo interesse per almeno due ordini di motivi –commenta dall’Osservatorio vesuviano il professor Giovanni Orsi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia-. Il primo è che esse permettono di studiare direttamente i processi che avvengono nel sistema di alimentazione di un vulcano, a profondità di chilometri all’interno della crosta terrestre. Il secondo è rappresentato dalle implicazioni che i risultati di queste ricerche hanno sulla definizione del comportamento di un vulcano attivo e, quindi, sulla capacità da parte della comunità scientifica di interpretare correttamente i segnali che esso invia, sia in termini di definizione dello stato attuale sia di previsione di una eventuale eruzione. Questi sono gli obiettivi che la moderna vulcanologia si pone a livello mondiale e, in particolare, in aree vulcaniche densamente abitate come ad esempio l’area napoletana, in Italia».

GRAFITE FERROMAGNETICA


A temperatura ambiente la grafite può comportarsi come un magnete permanente: lo ha scoperto un gruppo di ricercatori del Politecnico di Eindhoven e della Radboud University a Nijmegen, nei Paesi Bassi, che firmano un articolo sulla rivista "Nature Physics". La scoperta apre le porte a nuove promettenti applicazioni nel campo delle nanotecnologie, e in particolare nella progettazione di sensori, biosensori e rilevatori.

La grafite, quella che costituisce l'anima delle normali matite, è un composto stratificato in cui vi sono legami deboli fra i singoli strati monoatomici di carbonio, ossia di grafene, che la formano e per questo è utilizzata anche come lubrificante.

Nel nuovo lavoro Jiri Cervenka, Kees Flipse e Mikhail Katsnelson hanno dimostrato in modo diretto le proprietà ferromagnetiche della grafite, spiegandone i meccanismo sottostanti. Nella grafite le regioni di atomi di carbonio ben ordinati sono separate da difetti del materiale di 2 nanometri circa: gli elettroni presenti in queste regioni difettose (giallo e rosso nell'immagine) si comportano in modo differente da quelli nelle aree ordinate, mostrando somiglianze con il comportamento egli elettroni dei materiali ferromagnetici come ferro e cobalto.

I ricercatori hanno scoperto che queste regioni filamentose di confine fra le diverse aree ordinate degli strati monoatomici sono magneticamente accoppiate e vanno a formare una rete bidimensionale, e questo spiega il comportamento ferromagnetico. I ricercatori hanno anche mostrato che tale proprietà è legata all'assenza di impurità nei frammenti di grafite considerati.

E' piuttosto sorprendente, osservano i ricercatori, che un materiale composto unicamente da atomi di carbonio possa avere un comportamento ferromagnetico, ma questo apre le porte a nuove possibilità di creazione di materiali a base di carbonio per applicazioni nel campo della spintronica, e, considerato che il carbonio è un materiale biocompatibile, particolarmente promettenti appaiono le prospettive di applicazione nel campo dei biosensori.

CONDOLEEZA RICE E GLI UFO

giovedì 1 ottobre 2009

LA TERRA ENTRA IN RISERVA


Signori, si chiude. Se il pianeta fosse gestito come una famiglia all'antica, di quelle che non chiedono prestiti, domani dovrebbe serrare i battenti: le risorse sono finite. Ovviamente il mondo andrà avanti, ma a credito. Prenderemo energia, acqua e minerali a spese del futuro, restringendo il capitale di natura che abbiamo a disposizione. Il 25 settembre è l'Earth Overshoot Day, il momento dell'anno in cui la specie umana ha esaurito le risorse rinnovabili a disposizione e comincia a divorare quelle che dovrebbero sostenere le prossime generazioni.

A calcolare la data è il Global Footprint Network, l'associazione che misura l'impronta ecologica dell'umanità, cioè il segno prodotto sul pianeta dalla nostra vita quotidiana: dalle bistecche che mangiamo, dai cellulari che compriamo, dagli aerei che usiamo. Per millenni, fino alla rivoluzione industriale, questo segno è rimasto sostanzialmente invisibile. Ci sono stati scompensi ecologici anche violenti, ma localizzati: a livello globale gli effetti prodotti dall'esistenza di centinaia di milioni di esseri umani si confondevano con le oscillazioni periodiche della natura.

L'impatto si è fatto più consistente dall'inizio dell'Ottocento, ma solo negli ultimi decenni è cominciata la crescita drammatica che, a parte la battuta d'arresto prodotta dalla crisi economica, non accenna ad arrestarsi. Nel 1961 l'umanità consumava la metà della biocapacità del pianeta. Nel 1986 ci siamo spinti al limite ed è arrivato il primo Earth Overshoot Day: il 31 dicembre le risorse a disposizione erano finite. Nel 1995 la bancarotta ecologica è arrivata il 21 novembre. Dieci anni dopo i conti con la natura sono entrati in rosso già il 2 ottobre. Ora siamo retrocessi fino al 25 settembre: consumiamo il 40 per cento in più rispetto alle risorse che la Terra può generare. Nel 2050, se la crisi energetica non ci avrà costretto alla saggezza ecologica, per mantenere i conti in pareggio avremo bisogno di un pianeta gemello da usare come supermarket per prelevare materie prime, acqua, foreste, energia.

Forse non andrà così perché l'Earth Overshoot Day cade 80 giorni prima della conferenza di Copenaghen che costringerà il mondo a fare i conti con la più drammatica delle minacce create dal sovra consumo: il caos climatico derivante dall'uso smodato dei combustibili fossili e dalla deforestazione. La conferenza delle Nazioni Unite dovrà indicare la terapia per far scendere la febbre dell'atmosfera e la cura per ridurre le emissioni serra servirà anche a diminuire l'impronta complessiva dell'umanità.
L'esito del summit di Copenaghen appare però incerto ed è probabile che si concluderà con una faticosa mediazione, mentre solo una scelta forte a favore dell'innovazione tecnologica e di un ripensamento sugli stili di vita può rallentare il sovra consumo che mina gli equilibri ecologici. "La contro prova l'abbiamo avuta adesso", commenta Roberto Brambilla, delle Rete Lilliput che cura, assieme al Wwf, il calcolo dell'impronta ecologica. "Abbiamo sperimentato la crisi più grave dal 1929 e il risultato, in termini ecologici, è stato modesto: l'anno scorso l'Earth Overshoot Day è arrivato il 23 settembre, quest'anno il 25. Il colpo durissimo subito dall'economia mondiale ha spostato la data di soli due giorni. Questo significa che, se non si cambia il modello produttivo, neppure la malattia del sistema, con tutti i problemi connessi, può guarire l'ambiente. Al contrario diminuire il peso dell'impronta ecologica potrebbe aiutare l'economia. Ad esempio il 97 per cento del nostro patrimonio edilizio è costruito in modo inefficiente: ci sarebbe da fare cappotti isolanti per le pareti, tetti verdi e finestre con vetri ad alto isolamento da oggi al 2030".

C'E' ACQUA SULLA LUNA


Sulla Luna c'è una grande quantità di acqua. L'annuncio che aveva attraversato il web e il mondo dell'informazione nei giorni scorsi trova conferme nei dati pubblicati oggi da Science. Certo, non ci sono laghi, fiumi e oceani, e non troveremo mai acqua allo stato liquido, ma sull'intera superficie lunare esistono molecole di idrossile, ovvero acqua privata di uno ione di idrogeno. Una scoperta importantissima, che oltre ad avere rilevanti conseguenze scientifiche potrebbe influire sull'immaginario di una luna arida e secca.

La scoperta si deve a una sorta di "cooperazione cosmica" tra India, Europa e Stati Uniti. I risultati, infatti, sono arrivati intrecciando i dati forniti dagli strumenti di bordo della sonda indiana Chandrayaan-1 e da quella americana EPOXI. Inoltre si sono rivelati molto utili i rilevamenti forniti dalla sonda Cassini - progetto nato dalla cooperazione tra Nasa, Agenzia Spaziale Europea e Agenzia Spaziale Italiana - che nel suo viaggio verso Saturno rilevò nel 1999 dei dati riguardanti il nostro satellite. Dati che potrebbero dare il colpo di grazia alle teorie maggiormente in voga sull'origine della Luna.

Le osservazioni degli scienziati hanno dimostrato che le zone più ricche d'acqua sono quelle più vicine ai Poli. Inoltre pare che la formazione delle molecole d'acqua sia un processo ciclico, favorito dall'azione del vento solare che deposita continuamente protoni sulla superficie. I protoni, abbinati all'ossigeno presente, danno vita a molecole di idrossile. Queste rilevazioni sono state rese possibili grazie al Moon Minerology Mapper, l'M3, nuovo strumento della Nasa usato dalla sonda indiana, che ha rilevato onde luminose sulla superficie del satellite. L'analisi di queste onde ha mostrato la presenza di molecole di HO, l'idrossile appunto, una molecola con un atomo di idrogeno in meno rispetto a una molecola d'acqua.

E con ogni probabilità, queste molecole non si trovano solo in superficie. Larry Taylor dell'Università del Tennessee, ha dichiarato che lo strumento M3 è "in grado di rilevare la composizione dello strato superiore della superficie della luna solo ad una profondità di due o tre centimetri". Ma alcuni dati lasciano presagire delle ipotesi fondate. "E' molto probabile che ogni tonnellata di suolo lunare sia composta al 25% di acqua", ha aggiunto Taylor.

Alla sonda Cassini si deve la scoperta che l'acqua non si trova solo ai poli. Passata in orbita intorno alla luna nel 1999, la sonda conteneva al proprio interno il Vims, un radar ad infrarossi costruito dall'Agenzia Spaziale Italiana e dalla Nasa. Il Vims aveva fornito dei dati la cui analisi combinata con quelli della sonda indiana danno risultati che hanno stupito stupito gli stessi ricercatori. L'acqua sulla Luna si trova tanto ai Poli quanto a latitudini più basse. Un'analisi che nei giorni scorsi è stata confermata dagli strumenti a bordo della sonda della Nasa EPOXI.

La scoperta della presenza di acqua sulla luna segna una svolta in un dibattito che nel mondo scientifico dura da 40 anni. Una disputa iniziata quando gli astronauti della missione Apollo 14 riportarono sulla Terra circa 43 kg di rocce lunari. Le pietre furono analizzate dagli scienziati della Nasa che ipotizzarono, appunto, la presenza di acqua. Ma in quel momento non fu possibile fugare tutti i dubbi perché i contenitori stagni in cui erano state collocate le rocce non avevano tenuto, contaminando i reperti.

Ora parte la caccia al miglior progetto per urbanizzare il nostro satellite. Infatti la grande quantità d'idrogeno scoperta potrebbe rimuovere uno degli ostacoli all'ipotesi di permanenza dell'uomo sulla luna. Fino a poter ipotizzare di produrre direttamente sul suolo lunare aria respirabile.

MANGIARE PIANTE E FIORI ALLUNGA LA VITA


L'elisir di lunga vita? Mangiare fiori e piante spontanee. Fritti o nell'insalata, i fiori di campo contengono vitamine e anti-ossidanti che possono migliorare la salute. E' questo il segreto di Libereso Guglielmi, botanico 84enne, l'uomo che ispirò il "Barone rampante" di Italo Calvino.

"Esiste una varietà incredibile di piante commestibili che non conosciamo nemmeno e che dovrebbero entrare a far parte della nostra dieta", ha dichiarato Guglielmi, intervenuto alla prima mattinata di lavori del Festival della Salute a Viareggio. "L'ideale - ha affermato - sarebbe invogliare i bambini, che sono più propensi all'ascolto, a riappropriarsi di tutta una serie di informazioni riguardanti l'alimentazione e la cura di alcune malattie attraverso le piante, informazioni che sono andate del tutto perdute". Infatti, secondo il "guru verde", in pochi sanno che ci sono dei fiori che oltre ad essere bellissimi, sono anche molto buoni".

Guglielmi dà alcuni consigli culinari per realizzare particolari manicaretti con piante e fiori: "Il glicine, l'acacia e il sambuco sono perfetti fritti o nell'insalata. Il tulipano è ottimo se imbottito con del formaggio morbido e lo stesso vale per l'ibisco. L'ortica invece può essere molto utile per stimolare la diuresi". Ma non è facile reperire questi fiori. Per questo il botanico consiglia di coltivare queste piante spontanee in giardino. E per chi non dispone di un prato, la soluzione è semplice: "Si può mettere una vaschetta in balcone con delle piantine, basta un piccolo vaso - è il consiglio dell'esperto - per contenerne una decina".

Guglielmi, botanico di fama internazionale, cominciò la sua carriera grazie ad una borsa di studio del ministero dell'Agricoltura, al quale ebbe accesso grazie all'intervento di un altro botanico, Mario Calvino, padre dello scrittore Italo. Fu in quell'occasione che Guglielmi ebbe modo di frequentare l'allora giovanissimo scrittore e di ispirare la trama del famoso romanzo "Il barone rampante".

MESSAGGI SUBLIMINALI: FUNZIONANO QUELLI NEGATIVI


I messaggi subliminali - ossia quelle immagini che vengono proposte a un osservatore per un lasso di tempo talmente breve da impedirne la percezione cosciente - sono più efficaci quando veicolano un contenuto negativo: a stabilirlo è stata una ricerca condotta da psicologi dell'University College di Londra (UCL) con il concorso del Wellcome Trust, che firmano un articolo sulla rivista "Emotion".

La capacità delle immagini subliminali di influire sulle persone che le subiscono è ormai da anni oggetto di accese discussioni, soprattutto nell'ambito del mondo pubblicitario.

Diversi studi hanno indicato che la percezione inconscia di informazioni subliminali è in grado di suscitare una risposta emotiva, ma per lo più la progettazione di queste ricerche aveva caratteristiche metodologiche che le esponeva a critiche, sicché i loro risultati non potevano essere considerati definitivi né privi di ambiguità.

Nel corso di questo nuovo studio i ricercatori hanno mostrato a 50 soggetti una serie di parole che apparivano sul monitor di un computer per un intervallo sufficientemente breve perché l'osservatore non potesse leggerle consciamente. In mezzo a parole emotivamente neutre erano inserite alcune parole con una valenza emotiva positiva (per esempio: sorridente, fiore, pace) e altre con valenza negativa (agonia, disperazione, morte). Dopo ogni parola veniva chiesto ai soggetti se essa fosse neutra o emotivamente "colorata" e quanto consideravano affidabile il loro giudizio. E' risultato che i partecipanti rispondevano in modo decisamente più accurato alle parole con coloritura negativa, anche se erano perfettamente convinti che la risposta data fosse puramente casuale.

"Si è speculato molto intorno all'ipotesi che le persone possano elaborare inconsciamente o meno le informazioni emozionali, come immagini, facce o parole", osserva Nilli Lavie, che ha diretto lo studio. "Noi abbiamo mostrato che è possibile percepire il valore emotivo dei messaggi subliminali, provando in modo conclusivo che le persone sono molto più attente alle parole negative."

"Chiaramente c'è un vantaggio evolutivo a rispondere rapidamente a informazioni con valenza emotiva negativa. Non possiamo aspettare i comodi della nostra coscienza se qualcuno ci corre incontro con un coltello o se guidando sotto la pioggia o nella nebbia vediamo un segnale di pericolo."

Quanto all'applicazione dei messaggi subliminali in ambito pubblicitario, osserva la Lavie, "resta però controversa l'idea che, nell'ambito della pubblicità, il sottolineare le qualità negative di un concorrente possa funzionare in maniera più efficace del propagandare il proprio prodotto".

UN LEGAME SUBDOLO TRA TERREMOTI LONTANI


Terremoti di grande intensità che avvengono in regioni remote sono in grado di esercitare effetti negativi sulla capacità di "tenuta" di faglie che si trovino anche all'estremo opposto del globo. E' questa una delle più significative scoperte di una ricerca pubblicata su "Nature" proprio all'indomani dei terremoti che hanno colpito le Samoa e Sumatra.

Com'è ben noto, la possibilità di prevedere i terremoti si è sempre scontrata con la complessità che caratterizza l'attività sismica del pianeta, una complessità talmente elevata da nascondere le relazioni che potrebbero esserci almeno fra alcuni di essi.

Ora, a conclusione di uno studio iniziato oltre vent'anni fa, un gruppo di geologi della Carnegie Institution, della Rice University e dell'Università della California a Berkeley è riuscito a individuare una "subdola" e sfuggente relazione che li può collegare.

Paul Silver, Taka'aki Taira, Fenglin Niu e Robert Nadeau, i coordinatori dello studio, sono riusciti infatti a monitorare sottili cambiamenti nella resistenza di una faglia profonda, un fattore centrale per il verificarsi dei terremoti che finora però non era possibile misurare dalla superficie terrestre.

Con sismometri di altissima precisione i ricercatori sono infatti riusciti a osservare la presenza di piccoli progressivi cambiamenti nelle onde sismiche che si propagano lungo la zona della faglia di San Andreas, particolarmente nella regione circostante Parkfield. Questi cambiamenti sono indice di un indebolimento della faglia e corrispondono a periodi di aumento della frequenza di lievi terremoti lungo la faglia.

"I terremoti si verificano quando una faglia cede, o a causa dell'aumento dello stress o a causa dell'indebolimento della faglia stessa. I cambiamenti nella resistenza della faglia sono molto più difficili da misurare dei cambiamenti nello stress, specialmente per le faglie profonde. Il nostro risultato apre eccitanti possibilità di monitoraggio del rischio sismico e di comprensione delle cause dei terremoti", ha spiegato Taira.

La sezione della faglia di San Andreas studiata dai ricercatori, quella in prossimità di Parkfield, è per i geologi un "sorvegliato speciale", tanto che si sono dotati di una estesa e sofisticata rete di sismometri di ultima generazione e di altri strumenti di rilevazione di svariati parametri geofisici.

Le registrazioni relative ai numerosi piccoli terremoti che interessano la regione hanno in particolare rivelato che all'interno della zona di faglia esistevano aree con fratture riempite di fluidi. Ciò che ha attirato l'attenzione degli studiosi è il fatto che di tanto in tanto queste aree si spostavano leggermente. E che proprio durante questi periodi, le serie di piccoli e ripetuti terremoti diventavano più frequenti, un fatto che indicava un indebolimento della faglia.

"Il movimento del fluido in queste fratture lubrifica la zona di faglia e quindi la indebolisce", spiega Niu. "Lo spostamento complessivo dei fluidi è di appena dieci metri a una profondità di tre chilometri, e quindi sono necessari sismometri particolarmente sensibili per rilevare questi cambiamenti."

I ricercatori hanno anche notato che in due occasioni questi spostamenti si sono verificati dopo che la zona di faglia era stata disturbata dalle onde sismiche provenienti da due imponenti terremoti avvenuti a grande distanza, uno dei quali era quello che nel 2004 ha interessato Sumatra e le isole Andamane: la pressione esercitata da quelle onde sismiche è stata sufficiente a provocare uno spostamento dei fluidi nella sezione della faglia di San Andrea sotto osservazione. "E' possibile dunque che la forza della faglia e il rischio di terremoti si influenzato da eventi che avvengono dall'altra parte del globo", ha concluso Niu.

TERREMOTO DI 7,6 GRADI AL LARGO DI SUMATRA


Un terremoto di 7,6 gradi della scala Richter è stato registrato alle 12,16 (ora italiana) in Indonesia. L'epicentro è stato posizionato a 50 km da Padang, appena al largo della costa occidentale di Sumatra, alla profondità di 80 km. Dopo circa 20 minuti c'è stata una seconda scossa di 5,5 gradi, ma più profonda. Le vittime accertate sono già tra le 100 e le 200 e secondo le autorità ci sono migliaia di corpi sotto le macerie e non si sa quanti potranno essere estratti ancora in vita. Il capo dell’Unità di crisi del ministero della Salute Indonesiano, Rustam Pakaya, ha già stimato mille possibili vittime, ma per i bilanci è ancora troppo presto essendo ancora in corso, tra mille difficoltà, l'opera dei soccorritori.
VIGILANZA TSUNAMI - Non è stato diramato alcun allarme tsunami ma solo un avviso di vigilanza cancellato dopo poco più di un'ora. Sulla costa di Sumatra si è registato un aumento del livello del mare di 0,27 metri circa mezz'ora dopo il sisma. Il sisma è stato sentito distintamente anche a Kuala Lumpur, capitale della Malaysia, e a Singapore. Nella città-Stato, distante 450 km dall'epicentro, alcuni grattacieli sono stati evacuati per precauzione.
LA CONTA DELLE VITTIME - Secondo le notizie ufficiali diramate dal governo i morti accertati potrebbero essere fino a 200 ma, come detto, migliaia di persone sono intrappolate sotto le macerie, tra le quali quelle dell'ospedale e quindi tutti i numeri sono al momento da valutare con cautela. A Padang, una città di 900 mila abitanti nell'isola di Sumatra, secondo le prime risultanze risultano danneggiate case e ponti; un testimone ha riferito di incendi scoppiati e di un hotel crollato. L'Agenzia sismologica indonesiana ha riferito che «edifici di grandi dimensioni sono andati distrutti» e che «le comunicazioni sono interrotte». Difficili anche i collegamenti a causa delle frane che hanno interessato le strade, chiuso l'aeroporto con il tetto del terminal crollato. Nessuna notizia da Pariaman, città di 100 mila abitanti a pochi chilometri dall'epicentro, dove si temono danni e vittime. Secondo la Farnesina, al momento non risulta nessun italiano coinvolto nel sisma indonesiano, ma gli accertamenti proseguono fanno sapere dal ministero degli Esteri.
LE COINCIDENZE - Straordinarie le coincidenze, che forse coincidenze non sono, tra gli episodi attuali, con il sisma di martedì alle isole Samoa, e quanto avvenne nel dicembre 2004, che culminò con il disastroso tsunami nell'oceano Indiano. Il 23 dicembre 2004 avvenne un terremoto di 8,1 gradi Richter al largo dell'isola Macquarie (all'epoca il sisma più forte in 14 mesi) al confine delle placche tettoniche pacifica e indo-australiana. Dopo 58 ore (meno di due giorni e mezzo) si scatenò il sisma di 9,1 gradi a Sumatra che innescò il maremoto e che insieme provocarono circa 250 mila vittime. Ipotizzabile il collegamento tra i due episodi del 2004: un forte sisma rese probabilmente instabile la placca indo-australiana, che (in parte) recuperò l'equilibrio con il terremoto a Sumatra. Martedì c'è stato il sisma di 8-8,3 gradi a Samoa (il più forte degli ultimi due anni), che coinvolge sempre le stesse due placche tettoniche, e a distanza di circa 16 ore è avvenuto un altro terremoto con epicentro non troppo distante da quello del 26 dicembre 2004 ma sempre sulla stessa linea di subduzione. Inoltre il 28 marzo 2005 avvenne una scossa di 8,6 gradi che provocò circa mille morti e causò un piccolo tsunami con epicentro sull'isola Nias, a poche decine di chilometri a nord-ovest dal luogo dove è avvenuto il sisma odierno.