mercoledì 30 settembre 2009

TSUNAMI A SAMOA, TERREMOTO DI MAGNITUDO 8.3


Onde anomale colossali, scatenate da un sisma registrato la scorsa notte fra le Samoa occidentali e le Samoa americane, con una magnitudo di 8,3 e una profondita' di 18 km, hanno inondato e distrutto interi villaggi e ucciso almeno 130 persone, secondo fonti ufficiali. Innumerevoli sono ancora i dispersi.
Il bilancio, fornito da fonti ospedaliere e dalle autorita', comprende le vittime accertate nelle isole Samoa occidentali e americane e nel vicino arcipelago di Tonga. Una fonte dell'ospedale Tupua Tamasese delle Samoa ha detto alla France Presse che nelle Samoa indipendenti sono stati finora contati 84 morti. Nelle Samoe americane hanno perso la vita 22 persone, secondo le autorita', e altre sette sono morte nelle Tonga. Decine di persone sono date invece per disperse nelle Samoa, dove le comunicazioni con numerosi villaggi sono interrotte.
Persone e auto sono state trascinate in mare, mentre la popolazione si e' rifugiata in terreni piu' elevati. Una serie di ondate alte fino a otto metri, almeno cinque secondo i testimoni, hanno colpito la parte meridionale dell'arcipelago nel Pacifico, diviso tra Samoa americane e Samoa occidentali, che hanno oltre 280 mila abitanti. Il presidente americano Barack Obama ha dichiarato lo stato di calamita' naturale nell'arcipelago, dove molte aree sono rimaste prive di elettricita' e acqua. Il sisma si e' prolungato per oltre due minuti facendo scattare l'allarme, esteso fino alla Nuova Zelanda ed alle Hawaii, poi revocato dalle autorita'.
Stanno bene e sono stati tutti contattati dall'ambasciata italiana presso la Nuova Zelanda, i 16 connazionali che si trovano al momento nella Samoa americana colpita la notte scorsa da un'onda anomala scatenata da un sisma. Lo ha riferito a SkyTg24 l'ambasciatore Gioacchino Trizzino. Il diplomatico ha raccontato che solo un'italiana, proprietaria di un piccolo resort che è andato distrutto, ha avuto qualche piccolo problema, ma è riuscita a mettersi in salvo all'arrivo dell'onda anomala. L'ambasciatore Trizzino ha riferito inoltre che rispetto al bilancio delle vittime - un centinaio - fra le Samoa occidentali e le Samoa americane, è ancora incerto. Nessuna vittima, risulta, per il momento, negli altro arcipelaghi vicini del Pacifico, come le isole Tonga.
Nelle Samoa americane lo tsunami ha colpito l'unico Parco Nazionale Usa a sud dell'Equatore, dove decine di turisti e operatori risultano dispersi: l'acqua ha inondato fino ad oltre un chilometro di terraferma. La capitale delle Samoa occidentali, Apia, e' deserta, con scuole e negozi chiusi, mentre migliaia di persone sono state trasferite in terreni piu' elevati.
Le preoccupazioni maggiori sono ora per il rischio di frane, e per la difficolta' a raggiungere le comunita' isolate delle isole minori. Australia e Nuova Zelanda, oltre agli Usa, si affrettano a inviare aiuti e personale di soccorso: la Caritas australiana ha avviato una raccolta di donazioni. Wellington manda aerei militari Orion per consegnare aiuti ed aiutare nella ricerca dei sopravvissuti.

venerdì 18 settembre 2009

giovedì 17 settembre 2009

L'ATTRITO INVISIBILE NON HA PIU' SEGRETI


Fa sprecare moltissima energia e così i fisici hanno cominciato s studiare l’attrito nel nanomondo (quello sotto il milionesimo di mllimetro) con l’obiettivo di costruire, in futuro, motori molecolari superefficienti. E stanno cominciando a ottenere i primi risultati. Un gruppo di ricercatori italiani della Sissa (Scuola Superiore di Studi Avanzati) di Trieste hanno appena pubblicato, sulla rivista Nature Materials, una ricerca che svela i segreti di questa forza dissipativa. I fisici hanno utilizzato un microscopio a forza atomica per misurare l’attrito cui è soggetta una punta finissima che scorre sulla superficie di un nano tubo.

LE PROPRIETÀ - «Oggi, con i nanotubi di carbonio – spiega Erio Tosatti della Sissa, fra gli autori della ricerca con Xiaohua Zhang - si fa di tutto: hanno eccezionali proprietà adesive, termiche, meccaniche ed elettriche». I ricercatori hanno così scoperto che l’attrito generato cambia a seconda della direzione della nanopunta: se quest’ultima scorre trasversalmente alla superficie del nanotubo, l’attrito è maggiore. «La fisica dell’attrito – continua Tosatti - è ancora poco esplorata, ma è un campo di ricerca di crescente interesse». Lo studio ha inoltre dimostrato che l’asimmetria dell’attrito può dipendere anche dalla forma della superficie e la disposizione a vite delle catene di atomi di carbonio sulla parete del tubo genera un attrito differente. La scoperta potrà permettere di sviluppare nuove strategie per selezionare nanotubi che possono avere proprietà meccaniche ed elettriche diverse a seconda del tipo di assemblaggio.
NANOTUBI NEI CHIP - Sempre a proposito di nanotubi, un gruppo di esperti del Mit, il Massachussetts Institute of Technology di Boston, hanno, invece, messo a punto una nuova tecnica per produrre nanotubi di carbonio che apre la strada all’uso di questi materiali nei chip e alla costruzione di computer più efficienti. I transistor nei chip sono tradizionalmente connessi a sottili fili di rame, ma questi ultimi si consumano facilmente con l’uso, diventano più sottili, la loro conduttività si riduce e i chip diventano più suscettibili ai guasti. Questi inconvenienti possono essere superati proprio grazie alla scoperta degli americani. Questi ultimi, infatti, sono riusciti a far crescere una «foresta» di nanotubi su una superficie metallica, a temperature vicine a quelle a cui vengono fabbricati i chip.

SCOPERTO IL PRIMO PIANETA EXTRASOLARE ROCCIOSO COME LA TERRA


Il più piccolo pianeta extrasolare e il più vicino alle sembianze della Terra ruota attorno ad una stella distante 500 anni luce dalla Terra nella costellazione Monoceros, L’Unicorno. Ora gli astronomi che lavorano con il satellite Corot hanno costruito un preciso identikit fornendo la prima solida prova di un pianeta roccioso nella nostra galassia.

IL SATELLITE - Corot è un satellite nato per compiere questo lavoro. Lanciato dal Cnes, l’agenzia spaziale francese, permette di indagare la presenza di nuovi pianeti quando questi transitano davanti all’astro madre, un metodo prezioso per capire le loro caratteristiche fisiche. Combinando queste misure con quelle della velocità radiale si arriva ad un’accurata stima della massa, del raggio e della densità media. Così si è visto che Corot-7b, come è stato battezzato il pianeta la cui presenza era stata inizialmente individuata all’inizio dell’anno, ha una densità media 5,5 grammi per centimetro cubo. Ciò lo rende il più simile, tra tutti i pianeti di questo tipo rilevati, a Mercurio, Venere, Terra e Marte. Un bel risultato nella ricerca del gemello della Terra per il satellite Corot al cui programma ha collaborato anche l’ESA europea fornendo alcune parti tra cui delle ottiche del telescopio. Per questo, in cambio, vari astronomi europei lo utilizzano nelle loro osservazioni. Per quanto riguarda il diametro esso è meno del doppio della nostra Terra mentre la sua distanza dalla stella è di 2,5 milioni di chilometri. Intorno ad essa compie un giro in 20,4 ore. L’ambiente non sembra però essere dei migliori essendo un po’ infernale e quindi senza vita. Intanto Corot continua a indagare e presto avremo altre preziose informazioni sul lontano corpo celeste.

L'ALBERO DA' ENERGIA ELETTRICA


Produrre energia dagli alberi: è ciò che hanno fatto i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), dimostrando che basta mettere un elettrodo su una pianta e un altro nel terreno per ottenere una scarica di circa 200 millivolt, sufficiente ad attivare un piccolo circuito elettrico. Siamo lontani dalla possibilità di sostituire i pannelli solari con gli alberi, ma l'energia prodotta sarebbe sufficiente per tenere in funzione, ad esempio, piccole apparecchiature antincendio, trasformando boschi e foreste in guardiani di se stessi. "Per quel che ne sappiamo - spiega il professor Babak Parviz, docente di ingegneria elettrica presso l'Università di Washington e coautore dello studio - è la prima volta che si riesce a produrre energia esclusivamente mettendo degli elettrodi negli alberi".

Anche nel dipartimento di Ortoflorofrutticoltura dell'università di Firenze si studia da anni l'elettrofisiologia radicale, ma una possibilità del genere non era stata ancora sperimentata: "Si tratta di una scoperta interessante - spiega il professor Francesco Ferrini, direttore del dipartimento e presidente della Società Italiana di Arboricoltura - generata in realtà da un meccanismo molto semplice. E' dalla fine degli anni '60 che si ipotizza di ricavare energia dagli alberi, il libro The secret life of plants di Peter Tompkins e Christopher Bird ha segnato l'inizio di un nuovo modo di concepire il rapporto tra pianta e uomo. Ma purtroppo degli alberi e delle loro infinite risorse si sa ancora pochissimo".

Questo perché, spiega lo studioso, la durata media della vita di un essere umano è inferiore a quella degli alberi. Una quercia può vivere anche 1000 anni, un leccio o un rovere fino a 500, e i tempi di reazione, a fronte di un qualunque tipo di esperimento, sono quindi molto dilatati. I ricercatori americani sono infatti partiti analizzando la parte degli alberi che si deteriora più velocemente, le foglie: il professor Carlton Himes, altro membro del team che ha realizzato la scoperta, ha trascorso un'intera estate studiando le foglie d'acero, molto comuni in America, e il processo di fotosintesi clorofilliana. Il meccanismo di trasformazione della linfa grezza in linfa elaborata genera una quantità di energia che è possibile intercettare e incanalare, ed è proprio questo che i ricercatori hanno fatto, costruendo un convertitore ad hoc. Gli studiosi hanno anche inserito nel dispositivo un orologio capace di alimentarsi con l'energia prodotta dall'albero e di riattivare il circuito a scadenze prestabilite, in modo da creare un meccanismo che si autoalimenta e non si spegne mai. Proprio come il circuito vitale degli alberi. L'apparecchio nel corso dell'esperimento ha consumato circa 10 nanowatt.

"Quello che abbiamo realizzato - conclude Parviz - è molto diverso dai normali generatori di energia vegetali, ad esempio quelli ottenuti dalla patata. Abbiamo sfruttato non una reazione chimica tra sostanze diverse ma l'energia stessa dell'albero". Una tecnologia tutta naturale che non potrà, per il momento, sostituire le centrali eoliche o quelle a energia solare, ma riuscirà magari a creare un rapporto diverso tra alberi e uomo.

BERLUSCONI STA MALE

STRAFALCIONI DI BERLUSCONI A PORTA A PORTA

mercoledì 16 settembre 2009

GLI EFFETTI A LUNGO TERMINE DELLA DIOSSINA


L’incidente avvenne nel 1976, ma i suoi effetti si sono fatti sentire ancora per lunghi anni: un nuovo studio pubblicato sulla rivista ad accesso libero “Environmental Health” stima ora l’aumento di tumori del seno e di neoplasie del sistema linfatico e del tessuto emopoietico negli abitanti della zona di Seveso, che com’è noto fu esposta a notevoli livelli di diossina.
Sebbene la sostanza sia classificata come cancerogena sia dall’International Agency for Research on Cancer sia dall'Environmental Protection Agency degli Stati Uniti, esiste tutt’ora un dibattito sul reale rischio che essa pone alla salute della popolazione generale.
Per rispondere almeno in parte alla questione, Angela Pesatori e colleghi della Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico e dell’Università degli studi di Milano hanno rilevato i dati epidemiologici dell’area riguardanti il periodo 1977-96 considerando i dati sanitari di tutti i soggetti che vivevano nella zona alla data dell’incidente – 10 luglio 1976 – e di coloro che vi si stabilirono o vi nacquero nei seguenti 10 anni.
“In effetti abbiamo trovato che essa rappresenta un fattore di rischio per l’insorgenza del cancro, sebbene inferiore a quello stimato sulla base degli studi sugli animali", ha spiegato la Pesatori.
Su più di 36.000 casi, vi sono stati 2122 casi di tumore, 660 dei quali con esordio successivo al 1991. Uno specifico quanto significativo incremento del rischio, in confronto con la popolazione generale, è stato riscontrato per il tumore del seno e per i tumori linfatici o del midollo osseo, sebbene sia stato calcolato sulla base di un limitato numero di casi.
"Questi incrementi erano attesi, sulla base dei precedenti studi: le stime di mortalità, che coprono un più lungo periodo di follow-up, hanno confermato l’eccesso del rischio linfatico ed emopoietico. Non si è invece riscontrato un aumento del rischio cancerogeno complessivo, come si è osservato in coorti occupazionali, in cui l’esposizione era simile, e in alcuni casi più alta e più complessa”, ha concluso la Pesatori.

LA CALOTTA ANTARTICA SI FORMO' DURANTE UN MINIMO DI CO2


La correlazione tra la diminuzione dei livelli di CO2 nell'atmosfera terrestre e la formazione della calotta antartica circa 34 milioni di anni fa è stata confermata per la prima volta in una ricerca pubblicata su “Nature”: il risultato è stato ottenuto da un gruppo di ricercatori delle Università di Cardiff e di Bristol e della Texas A&M University grazie all'estrazione di microfossili in campioni di roccia che hanno “registrato” i livelli di biossido di carbonio dell'atmosfera terrestre all'epoca della formazione della calotta glaciale.
I geologi hanno discusso a lungo sull'attribuzione della formazione della calotta alla graduale diminuzione dell'effetto serra naturale.
I risultati, confermano la diminuzione del biossido di carbonio durante la transizione climatica Eocene/Oligocene e l'inizio della formazione della calotta antartica quando tali livelli raggiunsero il valore minimo di circa 760 parti per milione.
"Circa 34 milioni di anni fa, la Terra sperimentò un misterioso trend di raffreddamento: i ghiacciai e le piccole calotte glaciali si svilupparono in Antartide, i livelli del mare diminuirono le foreste temperate cominciarono a sostituire la vegetazione tropicale in molte aree”, ha commentato Paul Pearson della School of Earth and Ocean Sciences della Cardiff University, che ha guidato la missione.
"Il periodo, noto come transizione Eocene/Oligocene, culminò con il rapido sviluppo di una calotta antartica su scala continentale, che è rimasta tale da allora.
Il gruppo di ricerca ha mappato le grandi distese di boscaglia e di deserto dell'Africa occidentare e ha ricostruito le sottostanti formazioni rocciose locali utilizzando gli affioramenti occasionali di rocce e i letti dei fiumi. Infine ha scoperto la presenza di sedimenti dell'epoca corretta nelle vicinanze di un villaggio africano chiamato Stakishari. Con una trivellatrice ha quindi estratto centinaia di metri di campioni dal sottosuolo fino a riuscire a triovare la sequenza di strati geologici di cui era alla ricerca.
"Utilizzando questa serie piuttosto rara di campioni provenienti dalla Tanzania e una nuova tecnica analitica, siamo riusciti per la prima volta a ricostruire la concentrazione di CO2 attraverso la transizione Eocene-Oligocene, il periodo di circa 34 milioni di anni in cui le calotte glaciali cominciarono a stratificarsi nella parte orientale dell'Antartide”, ha spiegato Gavin Foster del Dipartimento di scienze della Terra dell'Università di Bristol.
I nuovi dati offrono quindi una nuova base di discussione sull'aumento dei livelli di CO2 nell'atmosfera terrestre alla vigilia della Conferenza sul clima in programma a Copenhagen per la fine di quest'anno.

CELLE SOLARI A NANOTUBI DI CARBONIO


Utilizzando nanotubi di carbonio invece del tradizionale silicio, i ricercatori della Cornell University hanno realizzato gli elementi di base di una cella fotovoltaica che si spera possa portare a un metodo più efficiente per convertire la luce il corrente elettrica.
Secondo quanto riferito sulla rivista “Science”, i ricercatori hanno prodotto, testato e misurato una semplice cella solare denominato fotodiodo, costituito da un singolo nanotubo di carbonio.
Nell'articolo, Paul McEuen e Jiwoong Park, docenti di chimica e biologia, descrivono in che modo il loro dispositivo converte la luce in elettricità grazie a un processo estremamente efficiente che amplifica la quantità di corrente elettrica che fluisce. Il processo potrebbe dimostrarsi importante per la prossima generazione di celle solari ad alta efficienza.
"Non stiamo solo cercando un nuovo materiale, ma abbiamo realizzato un dispositivo effettivamente funzionante”, ha commentato Nathan Gabor, della McEuen.
I ricercatori hanno utilizzato un nanotubo di carbonio a parete singola di grafene per realizzare la cella solare. Delle dimensioni di una molecola di DNA, il nanotubo è teso tra due contatti elettrici e nelle vicinanze di due porte elettriche, una carica positivamente e l'altra negativamente.
Il lavoro è stato ispirato in parte da precedenti risultati ottenuti con un diodo, un semplice transistor che permette alla corrente di fluire in una sola direzione, utilizzando un nanotubo a parete singola. Il gruppo della Cornell voleva verificare la possibilità di costruire qualcosa di simile, ma facendo incidere sul nanotubo una radiazione luminosa.
Puntando laser di differenti colori su diverse aree del nanotubo, i ricercatori hanno così trovato che i più alti livelli di energia fotonica avevano un effetto di moltiplicazione sull'intensità della corrente elettrica prodotta.
Ulteriori studi hanno mostrato che la sottile stuttura cilindrica del nanotubo di carbonio di fatto costringe gli elettroni a fluire uno a uno. Inoltre, nel movimento nel nanotubo essi eccitano altri elettroni inducendoli a unirsi al flusso.
Il nanotubo, si è così scoperto, potrebbe essere una cella fotovoltaica quasi ideale, poiché permette di produrre più elettroni utilizzando l'energia in eccesso della luce.
Ciò rimarca la distanza con le tecnologie attuali - in cui l'energia extra viene persa in forma di calore, e le celle richiedono un costante raffreddamento esterno - e porta a immaginare applicazioni di notevole efficienza, anche se il passaggio verso le scale macroscopiche rappresenta un problema tecnologico di notevole difficoltà.

CINA: TUTTO EOLICO ENTRO IL 2030?


Entro il 2030 la Cina potrebbe soddisfare il suo fabbisogno di elettricità sfruttando unicamente energia eolica. Lo ha stabilito una ricerca pubblicata sull'ultimo numero di "Science" condotta da ricercatori della Harvard University e della Tsinghua University.
Con 792,5 gigawatt e una crescita annua del 10 per cento, la Cina ha una capacità di generazione di potenza elettrica inferiore solamente agli Stati Uniti, ma è già il più grande emettitore di CO2 al mondo. Attualmente l'energia eolica fornisce solo lo 0,4 per cento del fabbisogno cinese di elettricità, anche se solamente USA, Germania e Spagna ne producono di più. La velocità di crescita del paese in questo settore energetico è peraltro tale da candidarlo a diventare in tempi molto brevi il più grande mercato dell'eolico.
Per condurre il loro studio i ricercatori hanno usato i dati meteorologici del Goddard Earth Observing Data Assimilation System (GEOS) della NASA e ipotizzato l'installazione di turbine eoliche solo in aree rurali non forestate, prive di ghiacci e con una pendenza del terreno non superiore al 20 per cento. "Applicando le capacità delle scienze dell'atmosfera allo studio dell'energia siamo stati in grado di mappare le risorse eolice in un quadro complessivo"; ha detto Chris P. Nielsen, che ha coordinato la parte americana della ricerca.
L'analisi ha indicato che una rete di turbine eoliche che operasse almeno al 20 per cento delle sue capacità potrebbe fornire 27,4 petawatt-ora di elettricità all'anno, ossia sette volte gli attuali consumi del paese. I ricercatori hanno così stabilito che la sola energia eolica potrebbe soddisfare l'intero fabbisogno elettrico previsto per il 2030 a un costo di 7,6 centesimi di dollaro al kWh.
"Le centrali eoliche richiederebbero una superficie di soli 0,5 milioni di chilometri quadrati, le dimensioni di tre quarti del Texas. L'impatto fisico delle turbine potrebbe essere ridotto lasciando le aree a coltura agricola" ha aggiunto Xi Lu, uno degli autori dello studio.
Per contro, per soddisfare la crescente domanda energetica con combustibili fossili dei prossimi 20 anni, la Cina dovrebbe costruire impianti termoelettrici a carbone per 800 gigawatt, con un prevedibile aumento di 3,5 gigatonnellate di emissioni di CO2 all'anno.
Gli investimenti necessari per questa transizione ammonterebbero a 900 miliardi di dollari (a valore corrente) nell'arco di vent'anni, un costo reputato dai ricercatori certo ingente ma non irragionevole considerate le dimensioni dell'economia cinese.
"L'attuale domanda di nuova elettricità in Cina è di circa un gigawatt a settimana, ossia un enorme 50 gigawatt all'anno", osserva McElroy. "E la Cina intraprende la costruzione di diversi impianti termoelettrici a carbone alla settimana. Pubblicizzando l'opportunità di una via differente speriamo di esercitare un influenza positiva."

LA PIU' ANTICA FIBRA DI LINO MAI USATA DALL'UOMO


Una fibra di lino ritrovata in una grotta della Georgia risalente a 34.000 anni fa è stata riconosciuta come la più antica fibra usata da esseri umani
Una fibra di lino ritrovata in una grotta della Georgia risalente a 34.000 anni fa è stata riconosciuta come la più antica mai usata da esseri umani da un gruppo di archeologi e paleobiologi guidati da Ofer Bar-Yosef, George Grant MacCurdy e Janet G. B. MacCurdy della Harvard University, in collaborazione con Tengiz Meshveliani del Museo di Stato della Georgia e Anna Belfer-Cohen della Hebrew University.
Secondo l'articolo pubblicato sulla rivista “Science”, le fibre di lino deriverebbero da piante raccolte e non coltivate e potrebbero essere stata utilizzata per cucire insieme diversi pezzi di pellame per vestiti e calzature per ripararsi dal freddo e poter affrontare così l'inverno. Ma erano utili anche avvolgere i beni di prima necessità prima di un viaggio, un vantaggio notevole per una società di cacciatori-raccoglitori.
"Si è trattato di una invenzione cruciale per i primi esseri umani, che da quel momento poterono produrre parti di vestiti, corde o cesti, cioè per oggetti di utilizzo quotidiano”, ha commentato Bar-Yosef. "Sappiamo che si tratta di un lino selvatico che cresceva nelle vicinanze della caverna e veniva sfruttato intensivamente o estensivamente dagli umani moderni.”
La scoperta ha sorpreso i ricercatori per la sua età: in precedenza, il primato era detenuto da fibre ritrovate in strati di argilla nel sito di Dolni Vestonice, nella Repubblica Ceca, e datati a circa 28.000 anni fa.
L'obiettivo originario degli scienziati era di analizzare i campioni di polline di alberi trovati all'interno della cava nell'ambito di uno studio sulle fluttuazioni ambientali e di temperatura nel corso di migliaia di anni che avrebbero dovuto influenzare la vita dei primi esseri umani. Invece, analizzando i pollini, Eliso Kvavadze dell'Istituto di paleobiologia del Museo di stato della Georgia ha scoperto anche qualcosa che non era polline.
Bar-Yosef e il suo gruppo hanno utilizzato la tecnica di datazione al radiocarbonio e oltre alle fibre più antiche, ne hanno individuate altre in strati di argilla risalenti a 21.000 e 13.000 anni fa.

QUELLO CHE LE TV DI BERLUSCONI NON VI DIRANNO MAI SULL'AQUILA

TREMONTI: "Serve un NUOVO ORDINE MONDIALE!"

IL PIU' GRANDE CROP CIRCLE MAI APPARSO

venerdì 4 settembre 2009

ENIGMA DI DAVID WILCOCK

1/10

SVELATO IL SEGRETO DEL SESTO SENSO DEI PESCI


I pesci e alcuni anfibi possiedono una capacità sensoriale unica, consentitagli dal cosiddetto sistema della linea laterale, che permette loro di "toccare" degli oggetti situati nelle vicinanze senza alcun contatto fisico diretto o di "vederli" nell'oscurità. Ora un gruppo di ricercatori del Politecnico di Monaco di Baviera diretti da Leo van Hermmen è riuscito a scoprire le basi su cui si fonda questo straordinario sistema sensoriale, descritto in un articolo pubblicato su "Nature". Negli ultimi cinque anni van Hemmen e collaboratori hanno studiato le capacità del sistema della linea laterale valutando la possibilità di trasformarle in tecnologia.
Questo sistema sensoriale da remoto, apparentemente misterioso, sfrutta la capacità di valutare la distribuzione della pressione dell'acqua e ill campo delle sue velocità nelle vicinanze dell'animale. Gli organi responsabili della linea laterale sono allineati lungo il lato destro e sinistro del corpo del pesce, circondandone anche gli occhi e la bocca. Sono formati da unità, dette neuromasti, poste appena sotto la pelle, dotate di una consistenza gelatinosa che le rende flessibili.
I neuromasti sono sensibili ai più minuti movimenti dell'acqua ed è proprio grazie alla sensibilità a questi cambiamenti che, per esempio, i pesci che si spostano in banchi sono in grado di identificare la vicinanza di un predatore e sincronizzare perfettamente i propri movimenti, tanto da far sembrare il banco un unico enorme animale.
I ricercatori hanno sviluppato diversi modelli matematici confrontandoli con ciò che osservavano sperimentalmente attraverso la misurazione dei potenziali d'azione rilevati nei neuromasti. "I sistemi biologici seguono proprie leggi, ma le leggi sono universalmente valide nell'ambito della biologia e possono essere descritte matematicamente, una volta individuati i concetti biofisici e biologici corretti."
"Il senso della linea laterale mi ha affascinato fin dall'inizio, perché è fondamentalmente differente dagli altri sensi, come la vista o l'udito, anche se di primo acchito può non sembrare", ha osservato van Hemmen. "E non è solamente il fatto che descrive una differente qualità della realtà: al posto di basarsi su due occhi o due orecchi, questo senso si alimenta con le informazioni di molti organi di linea laterale discreti, dai 189 della rana Xenopus laevis alle diverse migliaia di un pesce, ciascuno dei quali è a sua volta composto di diversi neuromasti. L'integrazione che sottende è un vero tour de force."
Ora, modellizzato il sistema della linea laterale, i ricercatori intendono svilupparne delle applicazioni tecnologiche: il nuovo sistema potrebbe per esempio consentire la messa a punto di robot in grado di muoversi con sicurezza in ambienti affollati, o sottomarini in grado di orientasi autonomamente in ambienti dalle acque estremamente torbide. Questa applicazione è in effetti già in programma nel quadro del progetto europeo CILIA.

L'IMPRONTA DIGITALE DELLA SUPERCONDUTTIVITA'


"L'impronta digitale" spettroscopica della superconduttività resta intatta ben al di sopra delle basse temperature a cui i materiali superconduttori ad alta temperatura sono in grado di trasportare corrente elettrica senza resistenza. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori del Brookhaven National Laboratory, della Cornell University, dell'Università di Tokyo e dell'Institute of Advanced Industrial Science and Technology a Tsukuba, che illustrano la loro ricerca in un articolo su "Science".
La scoperta conferma che alcune importanti condizioni necessarie alla superconduttività esistono anche alle temperature superiori a quelle a cui normalmente si manifesta.
"Le nostre misurazioni forniscono la definitiva prova spettroscopica che il materiale che abbiamo studiato è un superconduttore anche al di sopra della temperatura di transizione, ma privo della coerenza di fase quantistica richiesta perché il flusso di corrente non incontri resistenza" ha detto Seamus Davis che ha coordinato ilgruppo di ricerca.
"L'impronta digitale spettroscopica conferma che a queste più elevate temperature gli elettroni sono accoppiati come nel superconduttore, ma per qualche ragione non cooperano in modo coerente per trasportare la corrente."
La scoperta e la tecnica con cui è stata ottenuta possono indicare la via per identificare ciò che inibisce la superconduttività coerente alle alte temperature. Questa conoscenza, a sua volta, può aiutare i ricercatori a sviluppare materiali superconduttori utilizzabili nelle apparecchiature di uso comune, a partire da linee di trasmissione elettrica senza perdite di potenza, che farebbero di questi materiali importanti strumenti di risparmio energetico.

GLI ANNI DEL RISVEGLIO